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Non eclissi la memoria

  • Immagine del redattore: Margherita Pogliani
    Margherita Pogliani
  • 31 minuti fa
  • Tempo di lettura: 5 min

Renato Dugnani memoria

Zitto zitto te ne sei andato. Anche nell'ultimo atto, sempre signore.

Stanotte c'è l'eclissi. La luna rossa. Tu lo sapevi, vero, zio? Hai scelto proprio questo momento, tra la tua partenza e la rinascita del cielo. Mi hai lasciato questi due giorni per capire. Per capire che ho perso uno dei più ricchi custodi di storie che abbia mai incontrato. E per metabolozzare quanto sia fondamentale che non eclissi la memoria!

Mamma mia, Giorgio, quanto parlavi. Le tue telefonate... fiumi in piena di ricordi: "Mi ricordo quando..." E via, per ore. I tuoi aneddoti che diventavano romanzi, le tue citazioni che spuntavano dal nulla impreziosendo la storia.

"L’unico senso è lasciare eredità d’affetti, memorie", mi hai detto l'ultima volta. E io l’ho buttata sul ridere: "Giorgio, sempre così drammatico, dai che hai ancora una Treccani da scrivere!” Già, da scrivere: non riuscivi quasi mai a stare fermo: le tue mani aggiustavano tutto. Il tuo Maggiolone all'epoca, i rapporti elettrici come quelli umani, i versi che non tornavano. Conte Dugnani per caso, gentiluomo per scelta, hai custodito le memorie di famiglia come reliquie, con quella dedizione elegante di chi sa di portare addosso secoli senza farsene peso. Eri un nobile e fiero Dugnani, archivista vivente di più di otto secoli di storia italiana. Non re e condottieri, no. Gentiluomini che scrivevano di automobili con la stessa passione con i loro avi cui progettavano edifici d'angolo, affinché la luce fosse protagonista.

Con te se ne vanno racconti di famiglia che alcuni dicevano romanzati. Ma tu intuivi che siamo fatti delle storie che ci narriamo. Esistiamo nella misura in cui qualcuno si prende la briga di svelarci. Tu eri questo per me: un archivio vivente che camminava tra noi con disinvoltura.

Penso alla tua casa, Giorgio, come un museo dell'anima. Oggetti accumulati in una vita di curiosità infinita. Cassetti pieni di fotografie dell'Italia che fu. I tuoi file e manoscritti dove annotavi tutto - tutto! Le ricette della nonna accanto alle riflessioni sui viaggi. Le riparazioni meccaniche mescolate ai versi inventati in rima per dire un semplice “Grazie”. E ora capisco cosa intendeva Rilke quando scriveva:

Ma perché essere qui è molto, e perché ci sembra che qui tutto abbia bisogno di noi, che questa fugacità stranamente ci riguardi. Noi i più fugaci. Ogni cosa una volta, solo una volta. E mai più.

Tu questo lo sapevi, Giorgio. Sapevi che "questo esser stati una volta, anche soltanto una volta, essere stati terreni, sembra irrevocabile." E per questo insistevi nel raccontare, nel voler "compiere, contenere nelle tue mani semplici, nello sguardo traboccante e nel cuore senza parole" ogni storia, ogni memoria.

Volevi diventare le storie che custodivi. Ma "a chi darle?" ti chiedevi. E io, stupida, non capivo che eri tu il viandante dal pendio del monte che non portava "un pugno di terra, per tutti indicibile, ma una parola afferrata, pura" - le tue genziane gialle e blu erano i nomi, le date, i volti, le voci di chi non c'era più.

"Forse noi siamo qui per dire casa, ponte, fonte, porta, brocca, albero da frutto, finestra" scriveva Rilke. Tu eri qui per narrare la tua storia, la loro storia: del nonno Renato, nobile straordinario persino quando era in corda doppia con la sua pipa (come nella foto che mi avevi mandato tempo fa). E la nonna Margherita, tuo zio Caio, mia mamma e vostro fratello Giovanni, l’infanzia a Bèe, i pranzi infiniti, le discussioni sul giornalismo, l'eleganza perduta. Per dire così, "come neppure le cose stesse pensavano nell'intimo d'essere."

Per citare sempre la 9° Elegia del grande poeta: "Qui è il tempo del dicibile, qui la sua casa. Parla e confessa." E tu parlavi, Giorgio. Confessavi le meraviglie semplici di una vita vissuta con intensità. Perché sapevi che "più che mai le cose, quelle vissute, passano e, ciò che le sostituisce è un fare senza immagine." E io? Io cosa facevo? Facevo senza immaginare. Rimandavo, confidando in un tempo infinito. "Un'altra volta, Giorgio. Un'altra volta mi racconti della bisnonna. Un'altra volta mi parli del nonno. Un'altra volta. Ora devo proprio lasciarti"…

Un'altra volta non c'è più.


Le persone come te stanno diventando farfalle in inverno: appartenevi a quella specie in via di estinzione degli uomini che vivono a regola d'arte, anzi, che trasformano l'esistenza in arte.

E forse è questo il senso dell'eclisse di stanotte. La luna si tinge di rosso per dirci che quando la luce sembra spegnersi, in realtà si trasforma. E così farò d'ora in poi: trasformerò storie in memorie. Farò tutte le domande che posso ancora fare. Perché ogni persona è un tesoro da scoprire. La nostra famiglia me lo ha insegnato: la vera nobiltà è trasformare la propria vita in dono per gli altri.

Rilke aveva ragione: dobbiamo mostrare all'angelo "ciò che è semplice, plasmato di generazione in generazione, ciò che vive come nostro vicino alla mano e allo sguardo. Digli le cose. Ne sarà sorpreso."

Possiamo rendere immortali le cose semplici col solo narrarle. Esistenze comuni possono diventare stra-ordinarie. Perché ogni vita merita di essere raccontata. Con empatia, riconoscenza, curiosità profonda. In fondo, è nella nostra natura esser come fiori che appassendo lasciano semi per offrire un nuovo gusto al mondo.


Stanotte guarderò l'eclissi e penserò a te, alla nostra famiglia, a me, sussurrandoti (senza pretesa di avvicinarmi al tuo talento per i versi in rima):

"Caro Giorgio, che ne sapevi di brutte e di belle, ora sei diventato luce di stelle. Possa iI tuo nome risuonare nel vento che viene, conte di memorie che tutto trattiene."

Ecco, Giorgio. Questo è per te. Per le tue telefonate infinite, per i tuoi racconti che non finivano mai, per quella tua capacità di trasformare una riparazione in ricordo funzionale (oltre che funzionante!), senza nemmeno renderne conto.

Quindi, grazie per tutto quello che ci hai trasmesso. E scusa per tutto quello che non ti ho chiesto.

 

PS: sono ancora su un’isola sbattuta dal vento e non ho foto tue, ma ho riscoperto una tua mail in cui ci condividervi questa foto d'epoca che confido m'autorizzi a pubblicare con le tue riflessioni:


"Carissime sorellina e nipotina,

vi mando - con grande soddisfazione, essendo riuscito a ritrovarla - questa foto, del 25 luglio 1915, del NASTRIFICIO ALBASINI & C°.

Seduti in prima fila - davanti a operaie e operai della piccola azienda che aveva sede nel seminterrato di quella che il nonno chiamava “la casa paterna”, in viale Azari di fronte alla villetta dei nonni - si distinguono bene (o per lo meno io ci sono riuscito, attingendo ai… neuroni della mia memoria pallanzese), da sinistra: lo "zio avvocato" cav. Giuseppe, fratello minore di mio nonno (da me mai conosciuto, perchè mancato nel 1938), mia nonna Rachele Cugnasca, mia mamma Margherita (allora quindicenne), mio nonno Giovanni, e qui vado un po’ a naso e lavoro d’immaginazione, il capitano Tommaso de Francesco con la figlia Anitina e sua moglie Ambrosina (per me la zia Ambrogia, poi mamma degli zii Lille, Pino e non ricordo più il nome del terzo zio, ingegnere, che sposò poi la zia Bobina, sorella del nostro medico dott. Usuelli. Non sono riuscito a riconoscere la zia Anita, sempre presente e da me spesso incontrata nella grande “casa paterna”, e la zia Angela/Lina, sposata Piatti e abitante, credo, a Locarno, incontrata solo qualche volta.

Mezzanotte è suonata, e prima di… trasformarmi in zucca abbandono i ricordi pallanzesi e il mio gattone, che dorme beatamente sulla poltroncina di fianco alla mia, sotto al Mac, e mi infilo a nanna, visto che, tanto per non cambiare, sono stanco morto…"

(Giorgio Dugnani, febbraio 2022)


Nastrificio Albasini, che non eclissi la memoria

©MargheritaPogliani 2019

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