top of page

Il diritto di sapere di che morte morire

  • Immagine del redattore: Margherita Pogliani
    Margherita Pogliani
  • 2 nov
  • Tempo di lettura: 6 min

Quando possibile, tutti noi abbiamo il diritto di sapere di che morte morire. Perché c'è un peso specifico nel dubbio. È diverso dalla paura, più sottile e più corrosivo. È quella sensazione di sapere senza sapere, di vedere il corpo che si consuma giorno dopo giorno mentre ti dicono che va tutto bene. È chiedere quasi ogni mattina, per cinquecento giorni: "Non è un tumore?" E sentirsi rispondere con parole che suonano come porte che si chiudono.


Sapere di che morte morire

Così oggi, 2 novembre, giorno in cui la nostra cultura, con saggezza antica, ci ricorda le nostre croci, mostro la mia, per ricordare che c'è un tipo di morte che non lascia tombe da visitare.

È la morte di chi se n'è andato portando con sé parole mai dette, verità mai condivise, addii mai consumati.

Ho scelto di condividere questa storia proprio oggi perché il giorno dei morti non sia solo un rituale di memoria passiva ma diventi un atto di trasformazione attiva. Diventi il momento in cui diciamo: 'In tuo onore, cambierò qualcosa. Affinché chi verrà dopo non debba vivere ciò che tu hai vissuto.'

In molte culture antiche, si credeva che in questo giorno i morti potessero tornare non per spaventare, ma per insegnare. Per sussurrare ai vivi: 'Ecco cosa ho imparato. Ecco cosa vorrei che tu facessi diversamente.'


Mio marito Guido e Gianluca Vialli avevano lo stesso male. Un adenocarcinoma al pancreas. Ma mentre Vialli poteva scrivere lettere ai suoi figli, noi vivevamo in una zona grigia dove il corpo diceva una cosa e le parole ne dicevano un'altra.

"Se muori all'improvviso di notte, tante cose rimangono incompiute. Questa consapevolezza mi ha cambiato. Ogni momento con le persone che amo è diventato prezioso. Scrivo lettere, sistemo cose rimaste in sospeso. La malattia mi ha reso fragile, ma anche più lucido. E in questa fragilità ho scoperto il segreto della felicità." (Gianluca Vialli)

Vialli ha potuto trasformare la sua morte in un lascito d'amore. Questa è la grazia che viene dal sapere. Non è stata risparmiata la sofferenza, ma gli è stata concessa la dignità.

Anche il corpo di Guido sapeva. Lo vedevo ogni giorno, entrando in quella stanza d'ospedale. La pelle che si squamava, il peso che perdeva, lo sguardo che si faceva più assente. Il corpo urlava una verità che nessuno voleva pronunciare. E abbiamo chiesto, quasi ogni giorno, per cinquecento giorni. "Non è un tumore? Siete sicuri che non sia un tumore?" Le risposte erano sempre evasive, sempre sospese tra il tecnico e il rassicurante. Ci veniva detto di aspettare, di avere fiducia, di non preoccuparci. Ma un corpo che si dissolve non aspetta. Non si fida. Si preoccupa.

Guido sentiva che il suo corpo non stava solo combattendo una malattia curabile. Sentiva qualcosa di più definitivo. Ma quando chiedi e ti viene detto di no, finisci per dubitare persino di ciò che il tuo corpo ti sta dicendo. Finisci per pensare di essere tu quello che esagera, che vede mostri dove non ci sono. Invece i mostri c'erano. E avevano un nome preciso che qualcuno, da qualche parte, aveva già scritto su una cartella clinica.


C'è un momento in cui capisci che non si tratta di prudenza medica. C'è un momento in cui realizzi che il silenzio non serve a proteggerti, ma a proteggere chi quel silenzio lo mantiene. Perché dire la verità significa assumersi una responsabilità. Significa essere presenti quando quella verità fa male. Significa rispondere alle domande che verranno.

È più facile rimandare. È più sicuro lasciare che la verità emerga da sola, quando ormai è troppo tardi per che nessuno possa chiedere: perché non me l'avete detto prima?

Due giorni dopo le dimissioni, la telefonata. "È un adenocarcinoma al pancreas." La stessa parola che Vialli aveva sentito, ma detta quando Guido aveva solo quindici giorni di vita rimasti. Quindici giorni dopo cinquecento di ospedale. Quindici giorni dopo cinquecento giorni di domande senza risposta.


"Il silenzio del medico può essere più crudele della malattia stessa.

Negare la verità al paziente significa negare la sua autonomia,

la sua possibilità di vivere fino alla fine come persona."

(Stefano Rodotà)


I nostri tre gemelli avevano diciassette anni. Avevano un padre in ospedale da un anno ma pensavano che sarebbe tornato a casa. Stavano litigando per sciocchezze adolescenziali mentre avrebbero dovuto avere conversazioni che segnano una vita. Stavano pianificando un futuro che includeva il loro papà.

E poi, in una manciata di giorni, tutto è crollato. Non hanno avuto il tempo di abituarsi gradualmente. Non hanno potuto fare quella elaborazione che trasforma la paura in accettazione, il terrore in preparazione. Sono passati dalla normalità al lutto senza attraversare quello spazio intermedio dove si impara a dire addio.

Guido non ha potuto scrivere loro lettere. Non ha potuto dir loro, con il tempo necessario, tutto ciò che un padre vorrebbe trasmettere. Non ha potuto prepararli, benedirli, lasciar loro quella eredità di parole che sostiene quando tutto il resto è andato via.

Ora sono diciannovenni e portano dentro di sé non solo il dolore naturale di chi perde un padre troppo presto. Portano anche la consapevolezza che quell'addio è stato rubato. Che avrebbero potuto avere più tempo, più parole, più memoria. Che qualcuno ha scelto di tenerli all'oscuro e quella scelta ha segnato per sempre il modo in cui ricordano il loro padre. Elisabeth Kübler-Ross ha scritto:

"Quando un paziente non viene informato della sua prognosi, viene privata l'intera famiglia della possibilità di un congedo consapevole e, di conseguenza, di un lutto elaborabile."


Due anni dopo, vivo ancora con domande che non hanno risposta. Come avrebbe voluto essere ricordato? Quali consigli avrebbe dato ai ragazzi per affrontare la vita senza di lui?

Ma c'è qualcosa di ancora più pesante: ogni ricordo di quei cinquecento giorni è ora inquinato dal dubbio. Quando lo vedevo soffrire e mi dicevano di non preoccuparmi, già sapevano? Quando chiedevo e mi rispondevano con mezze verità, stavano proteggendo lui o proteggendo se stessi? Quanto tempo prima avrebbero potuto dirci la verità, e hanno scelto di non farlo?

E poi c'è il senso di colpa. Non sono riuscita a farmi ascoltare. Ho chiesto, ho insistito, ma non abbastanza. O forse ho chiesto nel modo sbagliato. O forse avrei dovuto pretendere invece di chiedere. Questo senso di colpa, lo so, è irrazionale. Ma quando vivi nell'ingiustizia, anche i sentimenti diventano ingiusti.

E così il lutto si complica. Si intreccia con la rabbia, con il senso di impotenza, con la sensazione che qualcosa di prezioso ci sia stato sottratto non dalla malattia, ma da una scelta umana. Una scelta che avrebbe potuto essere diversa.


"Il lutto per una morte di cui non si è stati informati in tempo porta con sé un carico supplementare di sofferenza: quello della consapevolezza che la persona amata è stata privata della dignità di sapere, e noi della possibilità di accompagnarla come avremmo dovuto."

(Joan Didion)


Potrei lasciarmi consumare da questa rabbia. Sarebbe facile, e forse anche giusto. Ma scelgo di trasformare questo dolore in qualcosa che abbia senso. In un appello per tutti coloro che verranno dopo di noi.

Perché la testimonianza di Vialli ci mostra cosa è possibile quando viene rispettata la dignità di sapere. E la nostra storia mostra cosa accade quando questa dignità viene negata. Entrambe parlano della stessa verità: che sapere non è crudeltà, ma rispetto. Che la verità, per quanto dolorosa, è sempre preferibile al dubbio che corrode.

Faccio appello a chiunque abbia il potere di decidere: non scegliete il silenzio per proteggervi. Non privilegiate la difesa alla verità. Perché quella scelta non protegge nessuno: non il paziente, che muore senza sapere; non la famiglia, che vive nell'ingiustizia del non aver potuto accompagnare consapevolmente; non voi stessi, che portate il peso di quella omissione.

"La morte fa parte della vita. Negare a qualcuno la possibilità di prepararsi alla propria morte significa negare l'umanità stessa di quella persona", afferma Cicely Saunders.

Ecco, proprio nella Giornata dei Morti, ricordo con umanità profonda il vissuto mio e di Guido non solo per ciò che ci è stato negato, ma per tutto ciò che abbiamo condiviso nonostante. E porto avanti, con tutta la forza che mi resta, la richiesta che nessun altro debba mai più vivere questa stessa ingiustizia. Che nessun corpo debba più parlare una verità che viene negata con le parole. Che nessuna famiglia debba più essere segnata dal peso del dubbio trasformato in certezza troppo tardi.

Commenti


©MargheritaPogliani 2019

  • White LinkedIn Icon
  • White Instagram Icon
  • White Facebook Icon
CONTACT

Per me è un vero piacere connetterci, conoscere nuove realtà, storie, persone.

Per co-creare insieme o anche solo per confrontarci in spensierata libertà.

E grazie, per avermi seguita fin qui

e per il contatto!

Thanks for submitting!

bottom of page