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Capodanno: ogni fine è un nuovo inizio

  • Immagine del redattore: Margherita Pogliani
    Margherita Pogliani
  • 5 ore fa
  • Tempo di lettura: 6 min

"Ogni fine è un nuovo inizio." Hannah Arendt

 

Fine anno. Inizio anno. Capodanno.

Per me, questo momento porta con sé un peso particolare. È il tempo dei bilanci e dei ringraziamenti, delle riflessioni che scavano in profondità. Il tempo dei pianti che liberano, dei rammarichi che ancora pungono. Il tempo delle speranze che sbocciano timide e dei desideri che osano farsi spazio.

"Ogni fine è un nuovo inizio", dichiarò Hannah Arendt. E non avrei potuto trovare parole più vere per questo Capodanno, perché ogni inizio ha bisogno di una fine prima di poter esistere. Prima di poter fiorire. Prima di manifestarsi nel mondo. Come potrebbe altrimenti esserci spazio per qualcosa di nuovo, per qualcosa che ancora non è ma chiede di venire alla luce?


Fare spazio. Non è facile, vero?

Lasciar andare per me è difficilissimo. Fatico persino a lasciar andare gli avanzi di cibo dal frigorifero, le cose surgelate da troppo tempo, gli abiti di mia nonna e di mia mamma che conservano ancora il loro profumo. Le vecchie carte ingiallite. I libri mai letti che promettono mondi inesplorati. Le speranze disattese. I sogni infranti.

Faccio così fatica perché sono tenacemente legata a quell'idea della mancanza. "Se lascio andare... ma potrebbe tornare utile. Ma potrebbe tornare." No, non tornerà. Eppure, ci spero sempre.

Nella vita, però, giungono dei momenti in cui diventa necessario uscire dalla zona d'ombra. Mettersi in luce e imparare a lasciar andare il buio. Imparare a mettere la parola fine. Imparare ad affidarsi, ad aprirsi per un nuovo inizio.

Vorrei che oggi fosse quel momento.

Quel momento per aprirmi a un nuovo inizio, per affidarmi. E per mettere la parola fine.

Così ci provo con voi, ci provo qui, in questo luogo virtuale che tanto mi appartiene. Provo a prendere con voi l'impegno di mettere fine alla narrazione della vecchia Margherita. Quella Margherita che anche quando va a fare un esame, quando le chiedono "Come sta? Sintomi?", risponde d'istinto: "No, no, tutto bene."


Stress? Zero. Fatica pazzesca? La ignoro. Figli in crisi, anoressia, depressione maggiore, stanchezza costante? Parole, parole, parole. Io sto bene. Sono qui, continuo. Reggo tutto.

Già, reggo tutto. Non mi rompo – mi piego, ogni tanto. Ma rompersi, non sia mai! Solo il polso se le gambe cedono… Io continuo, continuo, continuo. Un anno dopo l’altro. Impossibile per me dire basta, dire no. Mi sembra impossibile far finire questo ruolo di caregiver che mi sono cucita addosso fin da quando ero piccina.

Innegabile: adoravo far del bene agli altri, aiutarli. Nutrire i coniglietti neonati che la mamma rifiutava. Adoravo cullare mia sorella, “inzigare” mio fratello, rispondere a mio padre per difendere anche le cause perse. Avevo la sensazione che reggere tutto e tutti oltremisura, prendendomi idealmente cura di chiunque, avrebbe portato gli altri a vedermi, apprezzarmi, amarmi.

Me la sono raccontata tanti di quei Capodanni… Uno dopo l’altro, stessa storia, stesso inizio, stesso finale. Reale, per carità. Indubbiamente questa narrazione mi ha sostenuto finora, facendomi fare tante scelte di dedizione, di protezione, di cura. Affinando però sempre meno la cura per me stessa, l'attenzione per me stessa.


Così mi ritrovo identificata in questi ruoli: la vedova, la mamma di tre tardo adolescenti con mille problemi, la donna che vive sempre sull'orlo del precipizio, in perenne rosso – e non più rossa di capelli. Con così tanti debiti che non sa neanche più da che parte girarsi. Ma con la costante sensazione di essere in debito con la vita. Non di avere dei debiti, ma di essere lei stessa il debito. Di essere lei che ancora ha da scontare tanto.

Forse è il caso di cambiare narrazione. Forse è il caso di mandare in pensione quella Margherita che pensa di non meritare, di essere in debito, di dover far fatica per esistere.


Capodanno: da fine a inizio

Me l'ha ricordato mio figlio, con quella gestualità ostentata con cui ci suggeriscono periodicamente di andare a quel paese.

Ma stavolta mi ha insegnano qualcosa. Mi ha fatto capire che c'è un pezzo del Capodanno che merita veramente di essere mandato il più lontano possibile. Fine. Stop. The end. Quale? Ovvio: la Margherita che dice sempre "tutto bene" anche quando non è vero.

Non sto rinnegando quella donna forte - "forza della natura", mi dicono spesso. Anzi, le sono grata. Profondamente. Ma anche le forze della natura prima o poi si esauriscono e hanno bisogno di mettere una parola fine alle abitudini che si sono create intorno per sopravvivere. Perché per vivere c'è bisogno veramente di poco. C'è bisogno di un terreno fertile, di qualche goccia d'acqua e di un po' di calore. E via, il seme, la radice torna a fiorire.

Le margherite, poi, crescono ovunque, persino nelle crepe del cemento – come i papaveri, come tanti fiori che si insinuano nelle fratture e le riempiono di vita. Ma c'è un'altra via per guardare alle crepe, alle rotture. I giapponesi la chiamano Kintsugi: l'arte di riparare la ceramica rotta con oro liquido, rendendo le fratture ancora più preziose, trasformando ogni rottura in un segno unico di bellezza. Non si nasconde la crepa, non la si riempie per farla sparire. La si esalta. La si onora. Dove finisce la crepa inizia qualcosa di molto più bello.


Forse è questo che sto imparando. Che le mie crepe, le mie fratture – quelle che ho cercato così a lungo di nascondere, di riempire con viti, bulloni, idee, aspettative – non devono scomparire. Possono diventare oro. Possono diventare il segno distintivo della mia storia, la prova che sono sopravvissuta, che mi sono spezzata e ricomposta. Che proprio nelle rotture si nasconde la possibilità di una bellezza nuova, irripetibile.

Da queste vaneggianti riflessioni intuisco che dietro l'apparente leggerezza dei festeggiamenti di Capodanno si nasconda l’invito profondo a guardare dentro di noi. Heidegger ci ricorda che l'essere umano è un "essere-per-la-morte": ogni fine anno è un piccolo promemoria della nostra finitezza, ma anche un'opportunità per rinnovarci, per vivere con maggiore autenticità. Ogni brindisi, ogni abbraccio di mezzanotte porta con sé questa consapevolezza sottile: il tempo passa, inesorabile, e noi siamo chiamati a scegliere come abitarlo. I festeggiamenti di Capodanno, dunque, non sono solo un momento di festa (o di farsa). Sono uno spazio in cui la vita si rivela in tutte le sue sfaccettature: la gioia e il dolore, i legami e le solitudini, i misteri che ancora ci attendono. È un invito a fermarsi, a riflettere e, soprattutto, a ritrovare il valore di ciò che conta davvero.


La stessa Hannah Arendt ci offre con il suo "Ogni fine è un nuovo inizio" una chiave preziosa. È un pensiero che ci incoraggia a guardare al futuro con speranza, trasformando il passato in una lezione da custodire, non da cui fuggire. Per chiudere e riaprire un nuovo capitolo. E Seneca, con la sua saggezza senza tempo, ci invita a vivere pienamente il presente: "Non è breve il tempo che abbiamo, ma ne sprechiamo molto."

Vero, di tempo ne sprechiamo molto. Troppo. Quindi è giunto il momento di fare spazio a questo nuovo che chiede di venire alla luce.

In fondo, io non posso salvare gli altri. Posso solo accompagnarli, stargli vicina. Posso fare il tifo per loro, come abbiamo detto più volte. Posso illuminare degli angoli che non avevano visto o voluto vedere. Ma oltre, oltre non posso fare. Ed è qui che la parola fine deve intervenire. Porre fine al pensiero che io possa salvare gli altri e non me stessa. E dare inizio al pensiero che io devo salvare me stessa. Proprio me. Con tutte le mie crepe che possono fare da culla a nuove gemme.

Poi tutto accadrà. Perché quando sboccia un fiore nuovo, escono anche le foglie e l'erba intorno. E piano piano magari ci sarà un seme di un frutto che darà origine a un albero, e l'albero ad altri fiori, e altri fiori ad altri frutti. Via via. Ogni fine è un nuovo inizio.

Insomma, oggi vedo questo Capodanno come uno spazio sospeso, una fine da cui ripartire, un capo sotto cui ho sostato troppo a lungo ma che posso finalmente salutare. Perché si trasformi in un inizio anno. In un Capodanno a mia misura, fatto di presenza, di relazioni autentiche, di ponti verso un domani più consapevole. Come scriveva Leopardi:

"Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice."

Crediamoci, intenzioniamoci, attiviamoci. La numerologia dice che il 2026 rappresenta un 10 (2+2+6=10!). Un nuovo ciclo. Un ricominciare da capo con tutta la saggezza accumulata. E venti favorevoli che spingono avanti. Anche perché – sapete? - il 10 è il mio numero fortunato!

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©MargheritaPogliani 2019

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