“Oh, raBBia!” esclamava Winnie the Pooh trovando il vaso di miele vuoto.
“Oh, raBBia!” mi ribolle nelle vene da ieri ripensando alle ennesime conferme del vuoto che ci circonda. E ci abita.
“Sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza”. Prendo in prestito le parole di Oriana Fallaci che oggi mi vestono perfettamente.
Una passione che è fra tutte la più turpe, aggiungerebbe Seneca, perché nasce dal sentirmi sminuita e insultata.
Sminuita dalla percezione che chi ci “rappresenta” sembra avere di noi: un gregge di pecore allo sbaraglio, pronte a suicidarsi in massa pur di non scegliere di fermarsi. Con i nostri ragazzi agnelli sacrificali da immolare al posto nostro.
Insultata, nel mio essere individuo e non persona.
In-dividuo, inteso come essere non divisibile, ben diverso da persona, inteso come la maschera teatrale che gli attori indossavano durante le rappresentazioni, con caratteri somatici incisi in modo marcato, affinché gli spettatori potessero riconoscere immediatamente il personaggio.
Personaggi, naturalmente, rappresentativi di caratteristiche esteriori e interiori generalizzate, indicative di una tipologia, appunto, di persona. Questa puntualizzazione etimologica non è fine a se stessa. Rappresenta bene a mio avviso l’urgenza di cambiare punti di vista, per il bene nostro, dei nostri figli, della democrazia in cui ci siamo illusi di vivere. Sembra quasi, infatti, che siamo in grado di osservarci veramente bene solo da una platea. Che il personaggio si comprenda sinceramente solo quando indossa una maschera — che paradossalmente lo esonera dal manifestare il suo unicum, la sua individualità.
Anche basta. Esco di scena: giù le maschere.
Il mondo gira al contrario: le democrazie vengono minate alle radici, le distrazioni ottundono la cultura, gli studenti vengono privati dell’unica conoscenza in grado di renderli uomini: la relazione.
Siamo relazione. Esistiamo in relazione. Non solo per le teorie quantistiche ma da qualsiasi prospettiva vogliamo vederla: relazione con noi stessi, relazione con gli altri, relazione riflessiva, ordinaria, binaria, simmetrica, transitiva, equivalente e chi più ne sa più ne metta.
Tra tutte penso che oggi domini una relazione complessa, isolante e molto pericolosa, perché ci porta alla deriva seguendo il miraggio dell’autonomia. Impossibile, impensabile, giacché siamo profondamente connessi.
Sento che in questo momento storico sia urgente inventarsi nuovi flussi relazionali. Fuori da definizioni, paradigmi e argini.
Come scriveva Bertolt Brecht:
“Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono”. Infiltriamoci in questi argini come tanti piccoli rivoli in relazione, nel senso arcaico del termine: incontriamoci, confrontiamoci, esprimiamoci. Anche rapportiamoci con al contrario perché, come ci insegna Aristotele, “tutte le cose si definiscono secondo la relazione con i loro contrari”.
Torniamo, dunque, in una sana logica relazionale, iniziando a porci le seguenti domande:
Quali relazione ho con me stesso?
Quali relazione ho con le persone? E quali, invece, con gli individui?
Quali relazioni creo nella mia vita?
Quali relazioni attivo davanti a un imprevisto?
Perché è questa la domanda che oggi possiamo farci: quali capacità metto in campo di fronte all’imprevisto?
Sagge e toccanti le parole dell’ultimo Il Caffè di Gramellini:
“Nella vita di prima succedevano cose impensabili che oggi sono impossibili, mentre allora erano solo imprevedibili (…). Ginnastica per la mente, costretta a misurarsi con stimoli inaspettati. Si può riprodurre tutto questo dentro lo schermo di un computer? Me lo chiedo ogni volta che penso agli adolescenti. Sono loro le prime vittime emotive di quanto ci sta succedendo. Da quasi un anno, non mettono più piede regolarmente dentro una scuola, un concerto o una festa. La giovinezza è uno stato d’animo che reclama la presenza, il contatto fisico. Vedersi «a distanza» è una condizione artefatta, un rito asettico che taglia fuori quasi tutti i sensi, a cominciare dall’olfatto: forse il più dirimente, almeno per gli innamorati.
(…) Dovremo reimparare (o imparare tout court) ad avere fiducia negli altri, e prima ancora in noi stessi”.
Quali abilità dovremo imparare? Quale qualità possiamo già oggi acquisire, nel senso più concreto, autentico e versatile?
Personalmente scelgo intelligĕre: la capacità di «intendere», di “leggere dentro”, di immedesimarsi nella realtà e saperla comprendere nel profondo.
Perché bloccare gli account dei social media, denunciarne il “dilemma” della manipolazione, temo ormai serva a poco. Internet è nata per scambiarsi dati. Il suo valore, oggi, è proprio quello per cui è stato inventato: condividere e distribuire informazioni attraverso computer correlati. Non cervelli correlati.
Ricordiamoci che dietro ogni computer c’è un individuo, con le sue unicità, emozioni, vissuti e desideri.
Lasciamolo libero di esistere.
Lasciamoci liberi di stupirci, affinché l’Urlo di Munch si trasformi nell’Altro mondo inciso da Escher, dove “Lo stupore è il sale della vita”.
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