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  • Immagine del redattoreMargherita Pogliani

Istinto materno


Mmmmm… Mmmma… Mmmmmam… Mmmmmmamma!

Dicono che la prima parola che i lattanti pronunciano sia "Mamma", perché inizia con una consonante labiale (m), che richiede l'uso di entrambe le labbra per emettere il suono. Come ha scoperto un linguista, è probabile che i bambini emettano questo suono durante l'allattamento al seno o al biberon e quindi "Mamma" può essere una prima parola comune perché è una costruzione orale familiare.

Per me Mamma era un sogno, un’ideale, un punto di partenza e soprattutto un punto di arrivo.

Io volevo essere mamma. Ho sentito quell'istinto materno da sempre: io dovevo essere una mamma. Non ricordo quando ho iniziato a desiderarlo ma rammento bene quanto abbia condizionato la mia vita.


Esser mamma dava alla mia esistenza un senso, non avrei potuto prescinderne, come se una forza magnetica condizionasse in modo atavico ogni mia scelta.

Fin da piccolissima mi sono eletta madre affidataria di coniglietti ripudiati dalla mamma naturale: li nutrivo con latte e miele aprendo loro la bocca e forzandoli a ciucciare da un biberon improvvisato con garza, tappo di plastica e bottiglietta di succo di frutta.

A quattro anni è nato mio fratello, diventato presto vittima di sperimentazioni di addomesticamento materno cui lo sottoponevo confidando nelle mie qualità di “sorellamma”. A poco meno di dodici anni il regalo più ambito: mia sorella, fin da subito la perfetta bambola viva e vegeta, da accudire e coccolare.

Non paga, mi sono dedicata a baby sitting, come fossi una mamma putativa in grado di colmare qualsiasi assenza. “La mia cucciola” resiste ancora oggi, rivelandosi nei miei confronti - bella lezione - più materna di quanto forse non abbia fatto io.

 

Ma tutte queste amene divagazioni erano proiezioni, perché volevo (anche) figli miei. Li volevo letteralmente a tutti i costi. E costi alti, in effetti, la vita mi ha sfidata a sostenere: 10 tentativi massacranti di fecondazione assistita, iniziati proprio il giorno dopo la messa in atto della legge 940. Mesi avanti e indietro all’alba in ospedale per fare prelievi ed ecografie e monitorare le ovulazioni indotte da punture quotidiane che mi facevano sentire sempre più tossica. 10 sedazioni profonde per prelevare gli ovociti e provare a farli fecondare da spermatozoi più morti che vivi. Nove referti di insuccesso, che ogni volta mi strappavano l’utero, gravido solo di speranze. Finché non ho trovato il coraggio di chiedere: “Se fossi sua moglie cosa consiglierebbe?” E il consiglio diretto e schietto mi portò a Valencia, dove godetti quelle settimane di stimoli ormonali come fossero olive giganti piene di succo energizzante.

 

Tornata a Milano ero talmente carica che non mi stupì risvegliarmi in una macelleria dopo esser svenuta per iperstimolo ovarico. Avevo dato tutto il mio corpo, la mia testa, il mio cuore, ok rischiavo la pelle, ma ero finalmente incinta! Non solo, nel mio utero avevo tre sacchi vitellini (stato pre fetale), anche se erano stati “inseriti” solo due embrioni. Notevole sorpresa: Guido svenne, io scoppiai a ridere. Un embrione si era sdoppiato per gemellarità e forse per accondiscendere con abbondanza al mio sogno di vita. Non era tutto figli e fiori: “Dovete eliminare il singolo o la coppia” ci disse la ginecologa, sottolineando che non erano stati registrati casi simili in Italia nell’ultimo decennio con esito positivo, ossia con tutti e tre i neonati vivi al momento del parto. E proprio in quel momento, davanti alla più importante decisione della mia vita, ho capito cosa significasse essere madre: essere madre significava affidarmi a quell’istinto materno e rifiutare l’evidenza clinica, scommettendo tutto sulla vita. Sulla loro vita, sulla mia vita, sulla nostra vita.

 

Ho avuto fiducia nel fato, che li aveva moltiplicati, come nella forza indescrivibile che sentivo salire dalla pancia. Ho tenacemente cresciuto quella pancia a costo di rimanere allettata per settimane, osservata come un caso di studio e ridicolizzata per il mio istinto animale.

Perché generare è un istinto animale ma credere nei miracoli è ben altro. Io ho scelto di aver fede, ho creduto e tuttora credo che il senso di una vita sia generare e crescere meraviglie. Non necessariamente sangue del proprio sangue. Possono essere figli adottati o in affido, progetti cocreati, sogni realizzati: l’importante è dare nuova vita e accudire quella che incontriamo con amore, generosità e gratitudine.


Volevo essere mamma e la vita mi ha risposto con generosità, insegnandomi in questi ultimi anni quanto sia fondamentale riconoscersi innanzitutto madri di se stessi. Non misconosco la fortuna di aver potuto partorire e accudire cuccioli d’uomo e progetti futuristici, sentendomi al contempo materna con anime erranti, piante, animali e minerali, anzi, penso che tutti possano sentirsi madri.

Ma i figli, i progetti e tutto il resto cresce e ci dimostra – talvolta in modo brutale – che, anche se ci dedichiamo anima e corpo, nulla sta a noi se non la gratitudine di essergli potuti stare accanto.

Arriva un giorno, però, in cui inevitabilmente ci ritroviamo soli e rischiamo di scivolare nel vittimismo, nell’ansia, nella depressione. Eppure, è proprio quel vuoto (quella depressione) che mi ha permesso di fiorire nuovamente e seminare finalmente qualcosa per me: un legame emotivo sano con me stessa. A livello terapeutico lo chiamano reparenting, ossia quella tecnica che insegna a diventare genitori di sé, riconoscendo le proprie esigenze emotive in modo costruttivo, con maggiore fiducia nelle proprie capacità.

 

Mi intriga la tecnica di reparenting: chi disdegnerebbe l’opportunità di guardarsi con tenerezza comprensione, amore, interesse e partecipazione? Come insegna con grazia delicata la dott. Nicoletta Cinotti nel libro “Genitori di sé stessi”:


«L’importanza di questa genitorialità interiore è evidente perché, proprio nelle difficoltà, possiamo “comportarci da bambini”. Dentro di noi vivono ancora parti infantili o adolescenziali: non possiamo più pensare che farle crescere sia una responsabilità dei nostri genitori, ma possiamo trovare noi stessi la strada migliore per un cambiamento»


Già, senza pretendere crescite mirabolanti o aspettarsi parti trigemellari, è vero che possiamo trovare dentro di noi la strada migliore per un cambiamento, assecondando una volta tanto quell’istinto materno che a ben sentire ci tiene protegge e ci avvolge come una coccola compassionevole e supportiva.

Mamme in pectore, dunque, manifestatevi e sosteneteci a sentirci di nuovo liberi di entusiasmarci e crescere, crescere, crescere, anche soli ma ben accompagnati!

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