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Immagine del redattoreMargherita Pogliani

In emergenza serve forza di volontà

Aggiornamento: 15 giu 2023


In emergenza serve forza di volontà, come un geyser

“Sono stanco morto…”

“Mi sono tagliato perché ero triste…”

“Mamma, non riesco a mangiare!”

“Aiuto: il coniglio non si muove…”

“Codice rosso, chiamate i medici”


Emergenza: vivo da un anno in emergenza.

Come posso descrivere quello stato di ansia perenne, di dolore costante, di assuefazione in una dimensione che non ha spazio nè tempo?

Non posso, posso solo accettare ciò che c'è, ciò che ci sarà. Posso solo scrivere. Scrivere come mi sento, confidando lenisca il tumulto che ho dentro, i battiti che vengono a mancare, la gamba che trema allo sfinimento.

Serve davvero tanta forza di volontà, ma l'unica forza che provo erutta lacrime di rabbia che non trovano pace, come un geyser di sofferenza, sobbollendo con una desolazione che aliena, un’impotenza che devasta.


“Ruspetter pour etre respecté” diceva sempre la mia saggia nonna: solo esigendo si viene rispettati. E sentirsi rispettati, oggi, vale più di ogni atto di fede, di ogni gesto d’amore, perché ci permette di alzare lo sguardo e di sentirci riconosciuti come persone, non solo come numeri, seppur pazienti. E non è solo questione di diritto all'informazione. È questione di dignità e di sana comunicazione.

Sottovalutiamo troppo spesso l’importanza della comunicazione, confidando che la pazienza sia la virtù dei forti, finché non ci ritroviamo sulle spine, sfibrati da un continuo procrastinare, da un peggioramento progressivo, palese a vista, omesso a parole. Le domande non trovano risposte, le ipotesi restano a mezz’aria, il quadro clinico è perennemente in fase di valutazione. L'unica certezza è procedere, per tentativi.


Ironia della sorte anche 18 anni fa ci trovavamo in questo stesso ospedale dopo 12 mesi di tentativi di fecondazione assistita e sfiancati avevamo trovato il coraggio di chiedere al primario: “cosa farebbe se io fossi sua moglie?” E lui aveva onestamente abbassato lo sguardo e la guardia, suggerendoci una pista che non avevamo considerato. Avevamo scelto di tentare anche quella strada, una sola volta, tornando vittoriosi. Allora si trattava di vita, non di morte, e vita abbiamo potuto dare alla luce (moltiplicata 3), grazie a una catena di corresponsabilità che ci siamo assunti dopo esser stati informati.

Non era finita lì: i tentativi sono stati protagonisti di tutta la gestazione. “Non esiste casistica in Italia, il rischio di perdere i 3 feti ci sarà fino al settimo mese. Le opzioni conservative sono di eliminare il singolo o la coppia, ma naturalmente la scelta è vostra”. E la nostra scelta è stata di tentare, assumendoci il rischio di una gravidanza che non aveva precedenti di successo in Italia, portata a compimento grazie a quella chiarezza di passi e di intenti che fin dalle prime settimane ci era stata prospettata con cruda franchezza.

Siamo nel frattempo maturati e ancora oggi dobbiamo scegliere. Interveniamo? Non interneviamo? Quale soluzione rispetta maggiormente la qualità della vita? Quale la dignità della morte? Siamo in balia di tentativi, terrorizzati dai possibili errori. Siamo sommersi da pensieri ed emozioni dilanianti. Annaspiamo nel buio, impotenti. Finché una mano non si posa sulla nostra guancia, accarezzandola con delicatezza. Sei tu, e tu, e tu, e tu: Barbara, Stefania, Giovanna, Carlotta, Elena, Rosita, Cecilia, Emanuela, Luisa, Camilla, Nadia, Rachele, Miriam, Chiara, Anastasia e Margherita, con Milton, Ivan, Lorenzo, Emanuele, Luca, Alessandro, Andrea... ma quanti siete? Quanti quintali di supporto sapete portare? Perché è innegabile: siete voi, operatori non solo di salute ma di vera cura, che instancabilmente vi prodigate per lenire ogni dolore. Con vera umanità.

Il vostro minimo (massimo!) comune denominatore è la forza. Una forza di volontà che non si piega a niente e a nessuno, che guarda dritto in faccia ai mostri più temibili, che non si arrende nemmeno alla fine. Una forza di volontà che accarezza, senza tagliare. “La forza di volontà è l’insegnamento più potente che mi sta offrendo l’ospedale”, mi confessa una giovanissima amica infermiera, decisa a iscriversi anche a medicina, pur di acquisire tutti gli strumenti per curare il prossimo. “Ogni giorno – confida - stare immersa nel dolore e nella sofferenza mi insegna il valore della salute, che viene prima di tutto. Prima delle ansie economiche, prima dei tumulti sentimentali, prima delle stupidaggini che ogni giorno ci capitano. Forse sono troppo matura per la mia età, ma ogni sera torno a casa grata per le conoscenze che mi hanno arricchita, per i sorrisi che ho condiviso, per la forza di volontà che ho respirato”.

Una grande. Sei una grande, come tutte le persone che si stanno prendendo cura di noi. Ma tu, giovane praticante, sei ancora più grande perché hai l’energia di una ventenne e la saggezza di un’ottuagenaria, l’entusiasmo di una bimba e l’esperienza di una neofita, la sensibilità di una fanciulla e la tenacia di una veterana. La vita ti ha provata, ti sta provando duramente, ogni giorno, eppure non ti stanchi mai di sorridere, di consolare, di curare, di migliorare. Non ti stanchi mai di volere il bene degli altri, come ieri sera, quando commossa ci hai salutati ringraziandoci. Siamo noi a voler ringraziare te per questo tirocinio di forza di volontà. Potresti essere nostra figlia, tanto che ci hai idealmente chiesto: “Adottatemi”. Adottaci, ti rispondo, perché al tuo cospetto sento di essere io la bambina che ha tanto da imparare, in primis la forza di volontà invidiabile. Sai, l’hanno detto spesso anche a me e ho sempre risposto: "macché, nessuna invidia, per carità, mi limito a fare di necessità virtù." A ben guardare, non ci limitiamo a fare di necessità virtù ma impariamo a trasformare le necessità in virtù, con forza di volontà. Perché non possiamo fare altro se non adottarci tutti interi. Adottarci - sottolineo - non adattarci. E tu, giovanissima infermiera, accompagna chi verrà dopo di noi, perché hai un talento, il talento della cura luminosa.


“Non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare.

Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce.

Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che illumini quello che gli altri stanno facendo e quello che posso fare io.

Non voglio accettare, voglio accogliere e rispondere.

Non voglio essere buona, voglio essere sveglia.

Non voglio fare male, voglio dire: mi stai facendo male, smettila.

Non voglio diventare migliore, voglio sorridere al mio peggio.

Non voglio essere un’altra, voglio adottarmi tutta intera.

Non voglio pacificare tutto, voglio esplorare la realtà anche quando fa male, voglio la verità di me.

Non voglio insegnare, voglio accompagnare.

Non è che voglio così, è che non posso fare altro”


(Chandra Livia Candiani, Imparare a tremare)

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