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  • Immagine del redattoreMargherita Pogliani

StancaMente

“Come va?”

Stancamente.

Sono stanca, stanca marcia. Stanca di resistere, di correre, di cercare, di sforzarmi a esser forte.

Sono stanca, l’ho detto e l’ho persino scritto. È subdola, questa stanchezza che ottunde i sensi, intorpidisce la mente, prosciuga le energie.

Fatico a leggere, scrivere, essere presente e addirittura essere assente, perché, quando ben cedo, i pensieri vorticano assillanti, i sogni sono inquieti, i muscoli tesi e i nervi appesi a chissà quale fune.

Metterei la testa sotto a un cuscino e mi abbandonerei al sonno, come facevo dopo le notti insonni con i miei cuccioli.


Sì, sogno di tornare insietro ed essendo impossibile scendo a miti consigli, ammettendo che “ho solo bisogno di dormire”. Peccato che immediatamente il giudice interiore alzi le sopracciglia e imponga di alzarmi. Eseguo, per carità. Dura poco, per pietà: presto mi siedo davanti al computer, sostenuta da un ultimo baluardo di buona volontà e mi ritrovo catapultata in negoziazioni totalmente inutili, tra decolletè tacco 12 e cappotti vintage, per poi atterrare sul mio svago preferito, pianificare viaggi. Così proietto voli, scali, incastri di scambi case, suggestioni per una giornata stop over dall’altra parte del mondo, mezzi pubblici per vedere grandi muraglie o nuotare in grandi barriere. Infine, dopo ore e ore, alzo lo sguardo e i miei figli chiedono: “allora, stasera pizza”. Sì, pizza, pizza, pizza! Io stessa dico "che pizza sto diventando!"


“Non fare la vittima”, direbbero i miei figli. Nessun vittimismo, per carità, è semplicemente la constatazione amichevole di una pura verità: 15 mesi di assistenza dedicata mi hanno prosciugata, sebbene sia stata attenta a proteggere brevi pause e piccoli frammenti di colore tutti per me.

Devo aver fatto male i calcoli, perché mi ritrovo senza riserva, colpita e affondata da un peso troppo grande per continuare a tenere all’ombra le mie ombre. Dicono che siano proprio le ombre a permetterci di tornare alla luce, perché “l’ombra nasce dalla luce”: in teoria bisognerebbe girarsi verso il sole, così loro scivoleranno dietro di noi. Ma non vedo sole in questa stanza, anzi, non vedo colore e mi inquieta questo daltonismo emotivo che non mi appartiene, avendo sempre vissuto su vibrazioni cariche di calore e di speranza.


Mi torna in mente l’immagine devastante che vidi nel nostro giardino sul lago, due anni fa proprio in questo periodo: decine di abeti, castagni, rododendri maestosi e secolari erano stati abbattuti da un vento inaspettato, mostrando inermi radici troppo sottili e consunte per reggere il peso di una natura che negli anni è diventata sempre più dura e povera. Zolle larghe metri spuntavano come mehir dalla terra, quasi volessero urlare la mancanza a cui li avevamo sottoposti, per decenni e decenni e decenni.

Inerme ma responsabile, mi sono sentita allora; inerme e irresponsabile mi sento ora al solo pensiero di cadere come il più forte dei nostri castani. Mi feriscono i “ricci” che ho generato: “Che tristezza…”, affermano sempre più spaesati.

Già, riccetti del mio cuore, è ora di tirar fuori le castagne e ammettere che sì, è una gran tristezza. E sì, siamo tutti stanchi, prosciugati, addirittura impauriti da una natura, la nostra natura, che non riconosciamo più. Nessuno si senta risparmiato: penso non sia necessario un lutto per ritrovarsi così. Sembriamo tutti a un punto morto, stanchi oltre misura, impauriti da quella che sembra un’emorragia di energia pur restando immobili. Siamo impauriti dal sentirci isolati senza la soddisfazione di una beata solitudo. Impauriti dalla guerra e in fondo anche dalla pace etarna. Siamo impauriti da una fragilità che ci sbriciola i desideri e ci impedisce di avanzare.

Forse il segreto sta tutto lì: accettare di non avanzare. Non avanzare di un passo, non avanzare nulla nel bene e nel male, non avanzare pretese, non avanzare recriminazioni, non avanzare sorprese. Non avanzare e nemmeno indietreggiare. Basta molle che tirano su e giù. Basta catene che inchiodano al passato. Basta tiri mancini che riportano alla casella di partenza. Basta conflitti, accuse, difese a oltranza.


Ora è tempo di fermarci e stare. Stare senza fare. Fosse facile… Eppure, mi piace pensare che sia proprio questa la convalescenza: convalidarsi, ovvero darsi il diritto – e il dovere – di stare senza fare nulla, per riprendere le forze, per riparare le rotture, per drenare e forse, finalmente, cicatrizzare. In realtà etimologicamente deriva da convalèscere ‘riprendere forza, ristabilirsi’, ma anche ‘acquistare valore’, composto di con- e valescere ‘rinforzarsi’.

Giusto qualche giorno fa Viola mi ha scritto: “riprenditi mamma, riposati, non possiamo permetterci il lusso che anche tu stia male. Se tutti ti vedono come la forte e quella che non crolla mai è perché tu da sempre ti fai vedere così: per questo le persone si aspettano questo da te, perché tu stessa te lo aspetti. Sei forte ma puoi essere anche fragile, devi sono riuscire ad alternare le cose, e lo riuscirai a fare. Organizza e decidi il tempo da riservare a te stessa e agli altri. Ci devi provare per il tuo bene ma anche per noi e soprattutto lo devi a papà perché a lui è stato negato proprio il regalo di provare a vivere e migliorare.”


Quale regalo ci permette di provare a vivere e a migliorare? Il tempo, un tempo che ho creduto di difendere con la mia stessa vita, correndo talmente da dover inventare cloni illusori e ora, ora che ho così tanto tempo, diventa troppo tempo e mi sembra di perderlo tutto, nel tentativo di vincere questa stanchezza aberrante. Sì, la considero aberrante perché mi sembra ingrata e inutile e innaturale e mortale, contraria a ogni spasmo di vita. Eppure mi riconosco convalescente, quindi vado oltre l’apatia e chiamo un’amica profonda, come profonde sono le sue ferite, i suoi vissuti, per tanti versi così risonanti con i miei.

“Prova a cambiare posizione – mi dice. Prova a pensare che non stai perdendo tempo ma lasciando andare quel tempo. Stai dando dignità a quel tempo e al vuoto: ne stai riconoscendo l’immensità, che non vuole alcun controllo o giudizio. Stai, semplicemente stai con la tua stanchezza.”

Difficile, ma onestamente non impossibile se come alleata scelgo la compassione. Un sano amor proprio, un narcisismo gentile che non significa pietà o autocommiserazione, bensì tolleranza e accettazione dei propri vuoti, dei silenzi (anche e soprattutto interiori), dell’indiscutibile mortalità a cui tutti siamo soggetti.


Dicono che gli alberi poco prima di crollare trasferiscano ad altri la loro linfa vitale, perché sotto sotto abbiamo tutti le stesse radici e la possibilità di condividere il bene come il male. Non c’è muro che tenga. Non c’è ragione che salvi: preserviamo la nostra linfa finché riusciamo, poi trasmettiamola ad altri. Nel frattempo, compassionevolmente impariamo anche a non far niente. Limitiamoci a stare, oscillare e affidarci a una signora Natura (oltre che matura!) che conosce molto meglio di noi i tempi e i modi per vivere e per morire.

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