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  • Immagine del redattoreMargherita Pogliani

Rabbia!

Aggiornamento: 23 ott 2020

Milano centro, esterno giorno.

Voce stridula di giovane donna: “Mi lasci in pace! Aiuto! Mi sta molestando”

Voce pacata di giovane uomo: “Signora, mi scusi, mi sono limitato a chiederle dove ha la mascherina…”

Risposta: “Dove tengo la mascherina sono fatti miei. Lei mi sta molestando. Ora chiamo la polizia”

“Si calmi, era solo un’osservazione…”

“No: era una minaccia di venire a perquisirmi per vedere se ho una mascherina”

“Signora, sta scherzando? Comunque non vuole capire. Io devo andare”

“Stia fermo dove si trova, sto chiamando una volante. Anzi, già che ci sono chiamo anche un’ambulanza perché lei mi sta molestando e innervosendo”

Ha chiamato entrambe: volante e ambulanza. Mentre l’uomo, sconsolato, è andato per la sua strada.

Surreale? No, storia di ordinaria follia.

Rabbia, rabbia, rabbia! Diffusa, soffusa, sottesa, gridata, inghiottita, vomitata, negata, montata. Siamo immersi nella rabbia. Percepiamo rabbia in uno sguardo, temiamo rabbia in un tono più alto, coviamo rabbia che si moltiplica, notizia dopo notizia.

Vediamo il nemico ovunque. Perché esiste: è la paura che ignora l'origine.

Come scrive magistralmente Baricco in due dei 33 frammenti del suo ultimo Libro privato: “ma in realtà bisognerebbe provare a comprendere la Pandemia come creatura mitica. Molto più complessa di una semplice emergenza sanitaria, essa sembra piuttosto una costruzione collettiva in cui diversi saperi e svariate ignoranze hanno lavorato nell’apparente condivisione di un unico scopo. (…) Se la Pandemia è una figura mitica, cosa volevamo pronunciare a noi stessi quando l’abbiamo disegnata?”

E’ una domanda fastidiosa. Insidiosa. Difficile. Nel mio piccolo la risposta sarebbe stata: “Basta! Fermati! Agisci per evitare di pensare. Pensi per evitare di sentire”.

Evitare di sentire cosa? La rabbia. La paura. La tristezza.

“Grazie” al primo lockdown ho scoperto che isolarmi dal problema rappresentava già una distanza di sicurezza. Senza rinnegare le emozioni negative. Anzi, guardandole dritte in faccia e iniziando a confrontarmi con loro. Avrei potuto ricordare prima la saggia condivisione di Seneca a Lucilio:

Sono più le cose che ci spaventano di quelle che ci minacciano effettivamente e spesso soffriamo più per le nostre paure che per la realtà

In effetti, le nostre angosce derivano dal nostro giudizio, perché non accettiamo ciò che stiamo sentendo.

Ma se, come sostiene Ken Loach, “la rabbia è un requisito indispensabile per cambiare. Rabbia non nel senso personale del termine, bensì razionale. Rifiuto ragionato di accettare l’inaccettabile”, allora urliamo la nostra rabbia.

Rabbia perché nel tempo di gestazione di un prematuro abbiamo partorito per lo più critiche, rimbalzi, infantilismi ed egoismi.

Rabbia perché come sempre si scelgono le soluzioni più facili ma meno risolutive, come chiudere le scuole o imporre coprifuoco la notte.

Crediamo davvero di uscire da questa situazione con un atteggiamento che cerca di soffocare la rabbia o colpevolizzare altri per paura del confronto con noi stessi? Ci distruggerebbe, come la pressione in una caldaia.

Agiamo, allora! Iniziamo a riconoscere la rabbia per ciò che è stato o non è stato fatto. Senza giudizio, così potremo ascoltarla a distanza mentre fluisce, come acqua dalle chiuse di una diga.

Osserviamo cosa ci sta mostrando, con gratitudine.

Riconosciamo di non essere quella rabbia ma lo spazio consapevole che la rabbia sta attraversando.

Infine, ascoltiamoci nel profondo: verso quale obiettivo vogliamo indirizzare tutta questa forza?

Oggi io la indirizzo verso la vita. Consapevole. Compassionevole. Evolutiva. Seppur, per ora, limitata.

Fuori dalla finestra c’è un caco superstite.

Mi ricorda che resistiamo ai parassiti e alle beccate, a chi cerca di sradicarci e a chi pretende di farci maturare con i suoi tempi. A chi teorizza che siamo solo frutto della nostra fantasia, mentre in realtà siamo materia, siamo pienezza, siamo dolcezza.

Siamo (potenzialmente) semi di bontà.

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