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  • Immagine del redattoreMargherita Pogliani

Portiamo rispetto

Bimba, bimba mia, perdonami.
Ti ho sempre trattata da grande, mentre eri solo una bambina.
Ti ho sfidata a crescere, senza rispettare i tuoi tempi.
Ti ho minimizzata, quando eri giù, per paura che la mia fragilità venisse allo scoperto.
Ti ho giudicata. Ti ho velatamente e severamente criticata perché in te vedevo me.
Ti ho detto sì troppe volte, temendo che un no ti allontanasse ulteriormente.
Ti ho colpita tante volte, correndo a giudicarti, senza fermarmi a osservarti.
Ti ho isolata, lodando la tua autonomia, per non percepire la nostra distanza.
Ti ho tenuta all'oscuro, per nascondere i nostri silenzi.
Ho sedato la tua rabbia con giustificazioni ingiustificabili.
Ho spesso ignorato la tua sofferenza, incapace di porre un freno alla mia.
Ho inghiottito le tue lacrime perché non ti appannassero la vista, come se guardare fosse più importante che sentire.
Ti ho privata di tanto, bimba mia.
Ora devo portarti qualcosa di molto, molto importante: rispetto.
 

Scrivo a te, cucciola nascosta in qualche meandro del cuore.

Parlo a te, figlia mia, testimone vivente di quanto nel nostro piccolo ciascuna di noi possa e debba pretendere quel “#maipiù”.

E mi rivolgo a voi, maschi miei, perché non posso più stare ferma davanti a questi eccidi, che sospetto siano accomunati da una comune voragine: la mancanza di rispetto.

Rispetto tuo, suo, mio. Rispetto per noi stessi. Rispetto per chi siamo stati, per chi siamo, per chi saremo.

Dove sta il rispetto? Se lo sapevamo tutti perché siamo ancora qui a dire #maipiù?

Cosa stiamo facendo di concreto nelle nostre case, nelle nostre teste, nelle nostre relazioni a parte parlarne e cantarcele?

Fermiamoci a guardarci. Impariamo ad ascoltarci.

Rispettiamo l’esempio di chi ha perso la vita per non tradire i propri ideali di gioventù, delicati come ali di fumetti.

Rispettiamo chi si è guadagnato la sua laurea non honoris causa ma con il sangue.

Rispettiamo il dolore di chi restando ripete: “L’amore vero non umilia, non picchia, non uccide”.

 

Si levano i cartelli, si popolano i social e forse si trovano persino gli accordi per elaborare un piano di educazione all’affettività. Ma non esiste prevenzione, non esiste protezione, non esiste formazione se noi per primi come esseri umani continuiamo a mancarci di rispetto, criticandoci al fine di accusarci, non certo per difenderci.

Impariamo una buona volta ad ascoltare la nostra parte critica, sviluppata per proteggerci non per punirci, straordinariamente congegnata per prendere le distanze tra ciò che pensiamo e ciò che sentiamo. Stiamo, riconosciamo quello spazio che è solo nostro.

Maria Cristina Koch mi ha illuminata sul significato di rispetto, derivato da respicere, composta da re “di nuovo” e spicere “guardare”. Vi è rispetto quando si osserva lo spazio tra noi e l’altro. Addirittura, la giurisprudenza riconosce il rispetto come quello spazio che obbliga a una distanza da un bene e non può essere edificata.

Il rispetto riconosce e difende un’area di vuoto, una distanza tra noi e l’altro, che si genera attraverso un allontanamento tra ciò che vediamo e sentiamo.

E se vale con gli altri, perché non dovrebbe con noi stessi?


Portiamo rispetto, dunque, a noi stessi, perché mi sembra che ormai stiamo superando ogni limite. Scorro i commenti sui social, tutti bravi ad additare e a denunciare “i mostri” dietro ogni angolo.

Sorry, ho paura che il mostro non sia dietro l’angolo ma già dentro di noi.

Ciascuno di noi ha in sé un piccolo Hitler e una piccola Madre Teresa. Non sono congetture mie, per carità, ma di saggi esperti.

Mi riconosco un poco a Calcutta, molto nei campi di sterminio, dove il critico interiore dice che nulla è mai abbastanza, definisce le pene e rimanda all’aguzzino la scelta di che morte morire. E va sempre tutto bene. Fino a quando? Fino a quando “diremo ancora un altro sì”?

Persino Fiorella conclude ormai la sua più celebre canzone con un finale diverso, molto più potente: “e diremo ancora un altro NO!”, aggiungendo, “perché quando una donna dice no, è NO!” E tutte noi urliamo in coro quel no, quasi liberassimo la pressione di non poterlo mai dire.

 

“No, non si dice no”: siamo cresciuti con questo imperativo surreale.

Ma domandiamoci: perché non si può dire no? Fino alla generazione dei nostri nonni addirittura, una signora per esser tale doveva dire no, perché già quello sottendeva un forse. Le si portava rispetto per quel NO. Si riveriva il coraggio di negarsi per prendere le distanze e forse (ri)pensarci.

il caso di fermarci un attimo anche noi e, guardandoci dentro e indietro, prendere le distanze tra noi e il nostro passato, tra noi e la nostra parte bambina, ferita, sepolta, ignorata. Solo in quell’istantanea, spontanea, intima volontà di fermarsi per “re-spicere”, per guardarci di nuovo, possiamo trovare lo spazio dove portare rispetto a chi siamo state e a chi siamo ora, senza critiche, senza giudizi.


Portiamo rispetto alla rabbia e al dolore, per finalmente urlare NO a chi supera i confini e ci si avvicina con forza, con moine, con ricatti emotivi, con recriminazioni, con svalutazioni.

Nessuno escluso, mettendo l'ego in prima fila, perché siamo i peggior critici di noi stessi, mentre il rispetto presuppone una valutazione unanime che spinge ogni parte ad alzarsi per tessere la lode.




Urliamo NO al silenzio, all’omertà.

Denunciamo la violenza che subiamo ogni giorno, inghiottendo sterili polemiche e accuse come fosse sempre colpa nostra. Non esiste colpa. Esiste responsabilità. E la responsabilità che oggi sento più forte che mai è portare rispetto. Rispetto a noi stessi come esseri umani.

Perché noi per prime con le nostre bambine interiori ed esteriori, le nostre madri, sorelle, amiche, vicine e lontane, note e sconosciute, insieme ai nostri figli e agli uomini che hanno il coraggio di fermarsi un attimo e guardarsi dentro, possiamo, anzi dobbiamo, portare rispetto a quei NO che troppo spesso la nostra vocina interiore uccide sul nascere.

Basta silenzi. Vasta violenze, anche “solo” verbali. Basta oltraggi e manipolazioni. Basta vittimismi ed eccidi. Accendiamo la luce e rendiamoci conto che serve rispetto, di chi siamo e di ciò che vogliamo.

Giusto qualche giorno fa Edith Eger (dall’alto dei suoi 96 anni!) scriveva sulla propria pagina Facebook:

 

“La morte di giovani anime innocenti, di donne e di famiglie intere: questa sofferenza è l’oscurità. E il nostro compito è trovare la luce. In noi stessi e negli altri.

(…) Conoscete voi stessi e sostenete voi stessi. Allora sarete pronti ad ascoltare e sostenere gli altri che hanno bisogno della vostra saggezza e della vostra guida.

Come ho già detto, non potete dare ciò che non avete.

Quindi cominciate con voi stessi in questo giorno. Di cosa avete bisogno per sentirvi completi?”

 

Di cosa abbiamo bisogno per rispettarci?

Di cosa abbiamo bisogno per amarci?

Di cosa abbiamo bisogno per non essere “l’ultima” ma “la prima”?


Non serve una laurea per rispondere, ma un po’ di rispetto, quello sì, serve eccome, perché la prossima volta era già la scorsa volta.

Domani è già adesso. Non possiamo più aspettare. Dobbiamo scendere, prima che in piazza, nella nostra anima spiazzata, per riconoscerne il vuoto e quindi trovare quello spazio in cui portare rispetto. Il rispetto per noi e per gli altri.

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