In gabbia. Ci sentiamo in gabbia e oltre le sbarre ci mangiamo il fegato, lo stomaco, il cuore, il cervello.
Letteralmente. A morsi, feroci, massacranti.
Il dolore scava le viscere. Le ferite lacerano l'anima. E la domanda resta una sola: "Come ne esco?".
Come esco da questo corpo che non riconosco, da questa vita che non mi riconosce, che io non riconosco?
Non ne esco. Perché ci chiudiamo a chiave per non soffrire. Ci neghiamo le possibilità perché non c'è limite al dolore. Ci imprigioniamo in pareti di carne e ossa, senza renderci conto che sono la nostra carne, le nostre ossa. Sempre più esangui, esaurite. Oltre ogni limite.
Ho scritto l’ultimo post in occasione della giornata di sensibilizzazione contro i disturbi del comportamento alimentare e ho sbagliato perché non ho osato guardare oltre le sbarre. Le sbarre delle teorie e delle credenze, adottando il più “rassicurante” degli strumenti: la razionalità, quando di razionale non c’è nulla. Non c’è razionale nella sensibilità. Non c’è razionale nella parola “contro”. Non c’è razionale in un disturbo, in un comportamento, in una lotta e in una resa che divora le viscere.
Non c’è razionale nella stanchezza di vivere. Non c’è ragione, per me, in un suicidio.
E pensare che è la seconda causa di morte in assoluto tra i giovani, dopo gli incidenti stradali mi devasta. Lo considerano “un grande problema di salute pubblica, causato da aspetti psicologici, sociali, economici, biologici e culturali”. Ci difendiamo definendolo “un grande problema contemporaneo”, ne cerchiamo le cause in ogni anfratto della vita. Lo giudichiamo con incredula razionalità, raramente lo affrontiamo con empatia.
“Sono solo stanc*. Voglio solo suicidarmi”. Una condanna alla pena di morte. Proferila, sentirla.
“Stai passando il limite. Non scherzare, non dire così, non capisco poi perché…” Cerchiamo una risposta. Come se la stanchezza, la mancanza di voglia di vivere fosse un perverso indovinello di natura. Come se potessimo imporre all’altro di vivere. Come se bastasse accettare i propri limiti, proprio nell’epoca del “tutto, subito, performante”. Si passa dall’incredulità al rifiuto, per cadere, nel migliore dei casi su un materasso di commiserazione.
La verità è che ci sentiamo inermi davanti a disperazioni così contrarie alla natura, alla logica.
Siamo prigionieri di noi stessi, delle nostre paure, credenze, giudizi. Perché – ammettiamolo – abbiamo il terrore di non farcela, di fallire, di non essere abbastanza. E questo ci uccide, come la Naegleria foowleri, l’ameba che mangia il cervello.
Così pretendiamo di imporre il nostro volere, “la cosa giusta da fare”, anche se non capiamo.
E lasciassimo andare la necessità di capire, di controllare tutto?
Se iniziassimo a sentire cosa ci dice il nostro, di corpo?
Se fosse ora di ascoltare oltre le parole, di annusare quel metallo che ci ferisce, di abbracciare quel cuore martoriato, vomitando via le nostre paure più profonde, vedendo oltre le sbarre con empatia, con filosofia?
La vita mi dice che è giunta quell’ora. È giunta l’ora di decidere di testa, di cuore, di pancia. Andando oltre i limiti, prendendo spunto dall'omonimo titolo di incontri che da oggi l’Università Statale di Milano, avvia per diffondere il suo Progetto Carcere, cui si aggiunge l'iniziativa di Eduzione Puzzle che sabato 19 intervista a Stefano Simonetta, referente del progetto, nonché carissimo amico sul tema Oltre le sbarre.
Sono sei anni che il nostro Ateneo va "Oltre i limiti", attivandosi con numerosi dipartimenti (in primis Filosofia) all’interno degli istituti penitenziari milanesi. A oggi, sono oltre 120 gli studenti ristretti iscritti e affiancati da oltre 100 studenti-tutor per svolgere l’intero percorso universitario e laurearsi. Illusi? Non credo proprio.
Un essere umano sperimenta sé stesso, i suoi pensieri e sentimenti come qualcosa di separato dal resto, una sorta di illusione ottica di coscienza. Questa illusione è una sorta di prigione per noi, che ci limita ai nostri desideri personali e all’affetto per alcune persone a noi più vicine. Il nostro compito deve essere quello di liberarci da questa prigione allargando il nostro cerchio di compassione per abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza. (Albert Einstein)
Non si fugge di prigione ma ci si può liberare dall’illusione, perché siamo noi che la creiamo e ne custodiamo la chiave. Mi ha colpita sull’ultimo editoriale di Fabrizio Favini direttore del periodico Rivoluzione positiva, la considerazione che “pago un illusorio e fugace sollievo - dimostrare a me ed agli altri che sono una vittima - con la solida e durevole gabbia nella quale mi rinchiudo.
La mancanza di obiettività è il rifiuto di vedere e di accettare le cose come sono; è ben difficile cambiare quello che non si può - o non si vuole – vedere. (…) Se ciò che facciamo non rispecchia le nostre aspettative e le nostre capacità, la soluzione più compiacente con noi stessi è di imputarlo ad una causa esterna; la responsabilità è sempre altrove, e sono sempre gli altri a dover cambiare. Questo non ci rende consapevoli dei nostri limiti e ci impedisce di crescere e di migliorare”.
Per diventare consapevoli possiamo iniziare a (ri)conoscere cosa ci nutre, perché come commentava Simona Reordino, Life coach emotivo-comportamentale e biologa esperta in nutrizione e benessere: “Spesso i disturbi alimentari nascono proprio dall'esigenza della ragazza/o di cercare di riprendersi il potere di scegliere per sé stessa/o. Una mia giovane cliente qualche settimana fa mi ha fatto una analisi chiara del suo disturbo di eccessiva e compulsiva alimentazione: è l'unica cosa in cui posso decidere per me stessa e avere il controllo. In tutto il resto della mia vita decidono i miei genitori. Io decido cosa è quanto mangiare. Mi dà potere”.
Riprendiamoci, dunque, il potere e la responsabilità delle nostre prigioni, perché "siamo noi il confine della nostra libertà".
Ridiamo potere alla “responsabilità intesa come diritto alto da esercitare e gestire secondo la propria etica personale”, come saggiamente sottolinea Maria Cristina. E concordo con Nicoletta Vadalà che “la prima responsabilità sia quella dei nostri silenzi: quando omettiamo di dire per paura o quieto vivere; quando parliamo sulla voce degli altri e ci priviamo della possibilità ascoltare; quando ci sostituiamo agli altri ed impediamo che i loro pensieri affiorino e maturino, e così togliamo loro la bellezza di autodeterminarsi”.
Usciamo dalle nostre prigioni di mutismo e razionalità, se non per noi, almeno per i nostri figli. Condividiamo e allarghiamo il cerchio, in ogni senso.
Guardiamo oltre le sbarre.
Allunghiamo le orecchie, per sentire con il cuore.
Tocchiamo con empatia, perché ci “tocca” vivere, non sopravvivere.
E nutriamoci. Nutriamoci di conoscenza vera, quel sapere atavico che sgorga dall’anima. Perché e la (ri)conoscenza può essere un ottimo integratore per uscire da ogni prigione.
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