Desolazione. Autentica, profonda desolazione.
Una tristezza che ammanta. Un’ineluttabilità che annienta.
“Non è morto nessuno”, consola mia mamma.
Ha ragione: non è morto nessuno. Solo presenze silenti che ho sempre dato per scontato.
Erano gli alberi sotto cui mi rifugiavo da bambina, secolari, rigogliosi nelle loro folte chiome, carichi di frutti, ancora ricchi di storie da condividere.
E’ bastato un vento anomalo per abbatterli come fuscelli.
Sono enormi quelle zolle di terra, quei pesantissimi gradini del passato sradicati dal crollo di immensi fusti, troppo fragili per sopportare la furia della natura. Avevano resistito a guerre, geli, caldi tropicali. Non hanno potuto resistere alla mancanza degli essenziali: acqua e terra in cui nutrirsi, in cui radicarsi profondamente.
Quelle radici nude, che si sono allargate oltremisura per cercare nutrimento, che hanno trasformato tutta la loro forza in un tendere spasmodico verso l’alto, verso fioriture di una bellezza talmente rara da durare lo spazio di poche ore, urlano in modo innaturale verso il cielo.
Urlano dopo aver buttato all’aria pesi inimmaginabili. Urlano la disperazione, scoprendosi troppo fragili per continuare ad aggrapparsi a una sostanza che non c’è più.
Solo macerie e accettazione. Un colpo al cuore, che colgo come metafora di questi tempi, di cui non vedo soluzione.
Sono tanti. Sono grandi, possenti. Mi commuovono quando li abbraccio in orizzontale, a terra, increduli – come me – della fine che li ha colti all’improvviso.
“La tua bisnonna – mi racconta sempre mia mamma – poco prima di morire aveva fatto abbattere 98 (98!) alberi secolari. Diceva di voler luce, aria. Forse voleva prevenire simili situazioni, facendo pulizia”.
Pulizia: che grande concetto. In un mondo sempre più pieno la natura ci richiama a una scelta tanto banale quanto difficile: fare pulizia.
Pulirsi le mani, pulire gli ambienti non basta.
Dobbiamo pulire noi stessi, le nostre relazioni, le nostre intenzioni.
Non lasciamo che siano gli alberi ad abbattere i muri di indifferenza ed egocentrismo.
Dobbiamo assumerci il “peso del coraggio”, come canta Mannoia (sì, mi piace molto perché nella sua sonorità straordinaria esprime anche riflessioni sempre “generative”):
"E ho capito che non serve il tempo alle ferite Che sono sempre meno le persone unite Che non esiste azione senza conseguenza Chi ha torto e chi ha ragione quando un bambino muore
E allora stiamo ancora zitti perché così ci preferiscono Tutti zitti come cani che obbediscono Ci vorrebbe più rispetto Ci vorrebbe più attenzione Se si parla della vita Se parliamo di persone
Siamo il silenzio che resta dopo le parole Siamo la voce che può arrivare dove vuole Siamo il confine della nostra libertà Siamo noi l'umanità Siamo il diritto di cambiare tutto e di ricominciare Ricominciare
Ognuno gioca la sua parte in questa grande scena Ognuno ha i suoi diritti Ognuno ha la sua schiena Per sopportare il peso di ogni scelta Il peso di ogni passo Il peso del coraggio"
Il coraggio di impegnarci per pulire la nostra esistenza, per filtrare dai pensieri le nostre emozioni, per fare scelte consapevoli, per correre il rischio di amare e scavare il terreno per renderlo più fertile.
Un terreno in cui i nostri figli possano crescere rigogliosi ma anche rispettati, non solo rispettosi.
I castagni, le querce, i larici, gli abeti abbattuti tenevano ancora stretti i loro frutti. Meravigliosi, ma ancora acerbi, incapaci di propagarsi. Però, se avessero resistito li avrebbero lasciati andare, come le foglie e gli aghi. Perché abbiamo tutti bisogno di pulizia, di spogliarci dalle fronde, per riscoprire la nostra fragilità, per investire sulle nostre radici e dirigere la vita nelle profondità dell’esistenza.
Cosa troveremo sotto quegli strati di terra? Rocce, sicuramente. Dure, pesanti, fredde rocce. Ma anche fessure, anfratti, spazi dove incontrare altre radici profonde e condividere linfe vitali.
Dobbiamo, possiamo, (ri)scoprire il nostro essere Homo radix, come insegna Tiziano Fratus: «C’è una grammatica che attende soltanto di essere parlata, una lingua che abbiamo dimenticato allontanandoci dal cuore selvatico della nostra immaginazione: qualcuno la chiama boschese, qualcuno la chiama naturalezza, qualcuno la chiama selvatichezza» (da Il bosco è un mondo, Einaudi). Qualcuno, aggiungerei, la chiama indomabilità, irrequietezza infantile. E ben venga! Torniamo nei boschi, rendiamo onore alle radici, scaviamo, rimuoviamo pietre, sperimentiamo talee, grati della linfa che sapremo trasmettere a chi abbiamo vicino, bimbi e ragazzi in primis.
A tal proposito, voglio “seminare” la conclusione delle toccanti considerazioni di Massimo Colombo, pubblicate su oggi su Domani: “Il loro accettare la normalità assurda come solo la mente flessibile e ultraresistente dei ragazzini sa fare è a mio parere un pericolo.
Visti da fuori sono eroi. Visti da dentro lo sapremo tra qualche anno. Se saremo così bravi da saper guardare. (…) È sempre così. E, soprattutto, è sempre stato così. Si è lottato per un salario migliore, non per una vita migliore; per una pausa più lunga e non più ricca di affetti, divertimento e leggerezza; per la certezza di non essere licenziati, non per la qualità del lavoro. La mente, l'affettività, sono una nota a piè pagina, scritta in piccolo, come le clausole delle rate che paghiamo mensilmente erodendo il conto, già in negativo, della nostra esistenza. Faremmo bene a prenderne nota, facendo noi qualcosa per loro. Siamo già abbondantemente in debito.”
Comments