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  • Immagine del redattoreMargherita Pogliani

LiberAzione, liberaMente

“Mia madre si era recata in piazza San Pietro e aveva visto un soldato tedesco, seduto con atteggiamento accasciato, da sconfitto, su uno dei paracarri della piazza. Mamma gli si era avvicinata per salutarlo e vedere se aveva bisogno di qualcosa, lo ha accarezzato e quando è tornata a casa me lo ha raccontato chiudendo con: "Ho visto un ragazzo".

È stata una frase che davvero mi è restata dentro, nella sua semplicità densa ed estrema, senza discussione.

Tutto sta a come guardiamo l'altro, non a chi è o sarebbe altrove, da un altro punto di vista".


“Ho visto un ragazzo. Gli ho dato una carezza”: quale esempio di sensibilità e umanità!

È una memoria che voglio onorare, in questa giornata di Liberazione, insieme all’esperienza "liberamente bioenergetica" che ho vissuto qualche giorno fa, lasciandomi toccare dalla sensibilità, che insieme alle sensazioni, non mentono mai.

Negli ultimi mesi avevo l’impressione di vivere in trincea. Difesa, scavo, fortificazione, guardie estenuanti, pur di non perdere la “posizione”. Intorno, un continuo bombardamento di minacce, attacchi, feriti e battaglie interiori. Un corpo, il mio, ormai sinceramente provato da richieste continue e un drenaggio incessante di energie. Almeno, così me la raccontavo, finché per l’ennesima volta sono arrivata in ritardo e mi sono ritrovata massacrata dalla frustrazione, dall’imbarazzo, dalla rabbia. Rabbia verso me stessa, feroce, implacabile.

Una banalità rispetto ai devasti di malattie, ferite, depressioni e anoressie contro cui combatto ogni giorno. Una banalità che mi ha, però urtato la sensibilità tanto da scorticarmi e mostrarmi la lama del giudizio e della violenza con cui mi autodistruggevo. Una lama così tagliente da dissanguare il mio mondo interiore, il mio sentire, senza lasciare spazio a nulla di nuovo, anzi, lasciandomi nella vergogna di perpetrare una guerra folle. E senza fine.


Finché… “Vuoi venire a un incontro di bioenergetica dove accoglieremo le parti più doloranti, più inaccettabili di noi per integrarle, per costruire il luogo del loro stare insieme, nel corpo e nella mente? È un incontro che non ripara nel senso di aggiustare, ma in quello di integrare, di mettere insieme, dando valore ad ogni parte, al pieno e al vuoto.”

Integrazione? Bella promessa… Sentivo di dover almeno cercare un’alternativa all’incessante combattere contro me stessa con quella una guerra fredda, carica di dolore, rimorsi, difesa e attacco, strategie, manipolazioni (attive e passive) che avevo avviato in tempi immemori.

Così via, incurante degli allarmi rossi che lampeggiavano in famiglia, sono andata da Olga De Bacco, amica da tempo, mai vissuta come psicoterapeuta corporea, analista bioenergetica o counselor.

Olga per me era – e rimane – una donna talmente luminosa e sensibile da muovere il cuore con un semplice sguardo, mentre ammette: “Grazie alle mie difficoltà ho scoperto la mia forza, il potere della rinascita e il flusso dell’amore”. La sua polvere di stelle è la sensibilità.


“La sensibilità non è debolezza.

La sensibilità non è mancanza di forza.

La sensibilità non è vergogna.

La sensibilità non è da giustificare o reprimere.

La sensibilità è uno stato elevato di coscienza.

È come se si potesse ascoltare e ricevere la vita con più spazio”. (Olga De Bacco)



Ascoltare e ricevere la vita con più spazio, quale straordinaria possibilità, come fece mamma Kock con quel ragazzo, appena finita la guerra. Voglio immaginarla nobile ed eretta, come chi ha la dignità e anche l’onestà di conoscere bene il proprio diritto ad avere un posto nel mondo, senza vittimismi o manie egoiche. E risuonano, ancora, le parole di Olga: “Per smascherare la mentalità della vittima è necessario vedere in trasparenza cosa mi racconto e cosa faccio per non sentire; come la mia mente è separata dal cuore e in che modo la mia reattività cognitiva mi impedisce di riflettere e di regolare il movimento emotivo che mi sale verso la testa, che mi preme il petto e che mi addolora o irrigidisce l’addome. Possiamo ritrovare la sensazione che abbiamo perso nella tenera età: la sensazione di aver diritto di avere il proprio posto nel mondo. Siamo arrivati nel mondo con energia tale da poter “pretendere” il nutrimento, il calore umano e la cura. È nostra responsabilità ritrovare la sensazione psico-corporea della propria individualità. È nostra responsabilità far emergere l’unicità propria, che è unica e irripetibile. È nostra responsabilità accettare di essere diversi dagli altri e uscire dalla logica della comparazione per scoprire ed esprimere la propria autenticità e creatività. È nostra responsabilità ritrovare la fiducia nel Mondo che, con il suo “modo imperfetto”, vuole che IO ESISTA. È nostra responsabilità tornare all’immagine innata, all’essenza della ghianda che eravamo prima di diventare una quercia, all’energia che c’era prima di essere deviata o interrotta. Basta guardare quello che fanno gli altri, basta provare l’empatia per coloro che non ce la fanno, basta giudicare se stessi. Nella lotta per liberare noi stessi, spesso ci facciamo male, tanto male, perché ci colpiamo alla cieca, aspettandoci troppo da noi, non per noi”.


Ora fermati. Respira e ascolta le tue sensazioni interne, connettiti con la tua unicità, con i confini del tuo corpo, con il tuo sentire, con il calore che senti. Rivolgi la tua attenzione dentro di te e scendi dai pensieri verso il centro del tuo corpo. Ascolta la tua unicità.


E allora mi sono fermata, anche se credevo di non potere. Ho respirato e ho ascoltato le mie sensazioni, liberamente. Con libera mente. Mi sono lasciata andare e loro... loro, le mie sensazioni guidate dalla sensibilità sono uscite allo scoperto, espirando che mi faceva più star male. E ho toccato con mano le mie trincee, scavate in apnea, con badilate di paura, tristezza, solitudine, rabbia.

Così ho gettato le armi. Ho ceduto al dolore, alla furia cieca e distruttiva, alle urla, alle lacrime e anche al riso e alla vergogna e lì, lì in quel buio mi sono connessa con me stessa, accogliendo tutte le parti, dalla vittima autodistruttiva alla creativa positiva. Le ho ringraziate e mi sono perdonata per non averlo fatto prima, per aver represso la potenza della sensibilità, la forza della compassione per il sacrificio fatto negli anni per mantenere integra la dignità. Mi sono riconosciuta gli “Io posso” e tanti “Ho paura di…”. Ho chiuso gli occhi e ho sentito fluire l’energia in ogni cellula del corpo, cristallina, libera, pulsante, come mai prima. Mi sono lasciata guidare bendata in danze con le mie ombre e ho sfondato con grinta e forza inaspettata parte delle mie resistenze, sostenute dai credo infantili: “Ma cosa dici? Come ti permetti? Comportati da grande!” Sì, questa volta mi sono comportata da grande, lavorando su alcuni condizionamenti mentali che “tenevano” bloccato il corpo, la creatività e l’intuizione, l’amore e la fiducia. Contemporaneamente ho sciolto alcune pose del corpo che incatenavano la mente, riconoscendole e integrandole con naturalezza e amore. Amore per me stessa: ah, che liberazione!


Ora mi domandando, vi domando, da cosa vogliamo liberarci?

Onestamente io voglio continuare a liberarmi dai pesi del vittimismo, dai sensi di colpa, dalle aspettative, dalle preoccupazioni, dalla rabbia, dalla paura, dai “devo” fasulli.

Voglio onestà. Onestà di cuore e di testa, energia e speranza per passare dal dolore alla bellezza, con la grinta di gettarsi nel cambiamento, di correre il rischio di incontrare nuove difficoltà, nuove prove.

Per avere speranza, occorre avere fiducia in ciò che è, non in ciò che si crede di essere.

Bisogna avere il coraggio di lasciarsi andare e ascoltarsi, ascoltare i dolori del corpo e dell’anima, spogliati di ogni credenza, di ogni razionalità. Perché ora so che anche nel mio corpo provato, nel mio animo affaticato, c’è una resistenza sulla quale voglio fondare e vivere la mia identità di donna e di cittadina italiana. E lo voglio sperimentare insieme agli altri, “non per essere riconosciuta ma per fare il passo nel vuoto che consente di trascendere noi stessi, per occuparmi di quella meravigliosa parentesi” che è la sensibilità verso il vero sé e l’altro da sé.

La vulnerabilità e la voglia di conoscere “Chi porta il mio nome” – mi ha dimostrato Olga - ci mette in contatto con la natura mortale di noi stessi e della vita. Ci vuole una grande, grandissima forza d'animo per permettersi di stare al mondo rispettando la propria sensibilità”.

Ci vuole – aggiungo – la volontà di attraversare la paura, piangere la propria tristezza, urlare la rabbia, prendere a calci il rimorso e il rancore prima di vibrare in tutta la nostra vulnerabilità senza sentirci in pericolo. Perché solo lasciandoci veramente andare proviamo compassione. E con passione emerge quella tenerezza che non è debolezza ma la chiave per accettarci così come siamo e lasciarci penetrare da quello stato di pura presenza che è la nostra vera natura, con tutta la linfa dell’amore per questa esistenza, così sofferta a volte, ma anche così profondamente meravigliosa.

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