top of page
Cerca
  • Immagine del redattoreMargherita Pogliani

La mia croce: si può dare di più

Sfilano lievi e impalpabili questi venti e passa anni insieme.

Scorrono lente, inarrestabili le foto sul salvaschermo, ricordandomi momenti belli e anche quanto abbiamo e quanto avremmo potuto vivere se solo avessimo smorzato i toni, ci fossimo ritrovati in un abbraccio, avessimo privilegiato la complicità e l’ironia rispetto al duello critico.

Quante volte avremmo potuto, in tempi non condizionati da malattia e paure, guardarci negli occhi e realizzare che in fondo avevamo tutto? La domanda resterà senza risposta, tanto che del senno di poi sono piene le fosse. Eppure, nel retro cranio martella la solita croce: “ma di certo si può dare di più”.

 

“Si può dare di più, perché è dentro di noi Si può dare di più senza essere eroi Come fare non so, non lo sai neanche tu Ma di certo si può dare di più”

 

Suvvia, alzi la mano chi ha ignorato la strofa salva onnipotenza che ce le ha letteralmente cantate, anche prima di vincere a Sanremo quasi mezzo secolo fa.

Breve analisi del testo: partiamo dal “Ma”, maledetta congiunzione che separa anziché unire, insinuando il seme del dubbio, subito confermato dal “di certo” che anticipa la condanna: “si può dare di più”.

Siamo cresciuti a pane e “di più”. Abbiamo fatto indigestione di “di più”: voglio di più, credo di più, posso fare di più, devo dare di più. E così ci si ritrova a un certo punto del cammin di nostra vita in una selva oscura, abitata da fantasmi aguzzini, che insaziabili si abbuffano di dolori non narrabili.

Perché, ahimé, i dolori, quelli veri che infettano con sensi di colpa, non si possono narrare, si possono solo vivere, guardare e, volendo, perdonare. Sottolineo il “volendo” perché non viene naturale, anzi, personalmente devo impegnarmi davvero molto prima di scegliere di perdonarmi. In fondo per quale motivo mai dovrei perdonarmi “se”… Se avessi (implacabile evergreen che va bene con tutto) detto, fatto, scelto, amato, curato, ascoltato, ecc. ecc. ecc., di più, allora… Allora cosa? Allora forse…

 

“Con quanta facilità una vita diventa una litania di colpa e rimpianto, una canzone che continua a riecheggiare con lo stesso ritornello, con l'incapacità di perdonare noi stessi. Con quanta facilità la vita che non abbiamo vissuto diventa l'unica vita che per noi ha valore. Con quanta facilità ci lasciamo sedurre dalla fantasia che abbiamo tutto sotto controllo, che l'abbiamo sempre avuto, che le cose che avremmo potuto o dovuto fare o dire avevano il potere, se solo le avessimo fatte o dette, di cancellare la sofferenza, di vanificare la perdita, di curare il dolore. Con quanta facilità possiamo aggrapparci alle scelte che secondo noi avremmo potuto o dovuto compiere e venerarle”.

(Edith Eva Eger, La scelta di Edith, ed. Corbaccio)

 

Con incredibile facilità, ammetto. E me ne vergogno davanti all'autobiografia di Edith Eva Eger, straordinaria coetanea di Anna Frank sopravvissuta ai campi di sterminio e diventata psicologa per aiutare altri a superare i traumi del passato perdonandosi.

Lei è un'autentica superstite, mentre io... io ristagno in un passato che non ho ancora perdonato. Anzi, me ne sento responsabile, tanto che la prima volta che mi hanno domandato “È lei la superstite?” sono rimasta paralizzata dall’orrore, sentendomi quasi in colpa per esser lì ad avviare le pratiche post mortem. Il coniuge superstite è, infatti, “la persona, moglie o marito, con cui il defunto era legalmente sposato e che assume legalmente dei diritti derivanti dal matrimonio”. La legislazione non smorza i toni, anzi, li esaspera e io, inerme, ho obbedito all’appello e mi sono lasciata stritolare dalle sue leve, criticandomi per esser sopravvissuta, perché in fondo avrei potuto fare di più.

Quanto è più facile aggrapparsi all’avrei potuto e all’avrei dovuto, crogiolandosi tra il ruolo di vittima e di carnefice, su un’altalena di sensi di colpa che stordirebbe un fringuello? Per fortuna il fringuello non si stanca mai di volare e così io - facendo di necessità virtù - ho continuato a leggermi dentro, sostenuta dalle parole di chi per prima ha insegnato al mondo che “il peggior campo di concentramento è la propria mente”.

 

“Che siate all'alba, al meriggio o al crepuscolo della vita, che vi siate già imbattuti nella sofferenza profonda o abbiate incontrato soltanto le prima difficoltà, che viviate il primo amore o che abbiate perduto la persona amata per malattia o vecchiaia, che vi stiate riprendendo da una ferita che vi ha cambiato la vita o che cerchiate qualche piccolo aggiustamento che renda più piacevole la vostra esistenza, vorrei aiutarvi a scoprire come si può fuggire da quel campo di concentramento che è la vostra mente, per diventare la persona che siete destinati a essere.

Vorrei aiutarvi a sperimentare la libertà dal passato, la libertà dai fallimenti e dalle paure, la libertà dalla collera e dagli errori, la libertà dal rimpianto e dal dolore irrisolto, e la libertà di godervi pienamente la ricca tavola imbandita della vita.

Non possiamo scegliere una vita libera dalla sofferenza. Ma possiamo scegliere di essere liberi. Vi invito a compiere questa scelta”.


La nostra croce, cimitero Monumentale, Milano

L’invito di Edith non è caduto nel vuoto: la croce del passato, dei fallimenti e del dolore sordo e rabbioso è diventata troppo pesante anche per me. Così qualche giorno fa sono andata con la cana al Monumentale, dove riposano i nonni di nostra mamma, nati, ironia della sorte, esattamente un secolo prima di me e Guido. Tra opere d'arte incredibili, la loro tomba ha una statua che mi ha sempre commossa: una vedova con la sua croce, circondata dai suoi tre figli. Non ha colpe, non ha peccato. Lei sta. Sta salutando, sta prendendo un attimo di respiro, prima di fare il prossimo passo.

Alla sua ombra ho osato verbalizzare la mia frustrazione, la rabbia, la tristezza, il “si poteva fare di più”. Ho scritto una lettera a Guido poi l’ho bruciata, lasciando andare, cenere alla cenere.

Sono rincasata più leggera e ho guardato con occhi lucidi le nostre creature, cogliendone nel miracolo vivente che “abbiamo già fatto di più”.

Così ho ringraziato la mia croce, scegliendo di sotterrare quel “Si può dare di più”: ha fatto il suo tempo. Ora anche basta. Less is more.

Post recenti

Mostra tutti

Ricordo

bottom of page