“Di cosa hai paura?”
“Che mi feriscano ancora, facendomi sanguinare. Ormai corro il rischio di dissanguarmi”.
“Perché?”
“Perché sono stato ferito tante volte e già ho perso un sacco di sangue”.
“Avrai tante cicatrici. Ne intuisco lo spessore dal cordolo che ti hanno lasciato. Toccale: le senti? Sono evidenti. Ma ormai non sanguinano più. Non devi più temere di essere indifeso. Loro ti hanno reso un cuore coriaceo. E non significa che non sei più in grado di espanderti come gli altri o di battere vivace. No. Significa semplicemente che sei coriaceo: quelle cicatrici ti rendono unico, quello spessore di rende oggi meno vulnerabile ma non per questo meno sensibile”.
Ho avuto questa conversazione surreale con il mio cuore, al termine di un workshop sull’arte dello shift. Shift – come mi insegnano gli amici di Co-Crea - non significa trovare la soluzione che ci tiri fuori da uno stato che non ci piace o che non coincide con le nostre aspettative, ma implica l'essere consapevoli di dove siamo, accettarlo e affidarci al ritmo delle possibilità.
Dalla paura di ammettere la rabbia al coraggio di osservare il dolore che si nasconde dietro, di imparare a frequentarlo per (ri)conoscerlo, di scegliere se lasciarlo andare e soprattutto cosa ne vogliamo fare. Dentro una locanda Maria Cristina Koch, suggerisce: "bisognerebbe che non si avesse paura di soffrire”.
Già… soffrire… Soffrire deriva dal latino sub (sotto) e ferre (portare). Interessante lettura la offre Maurizio Chiamori: “Da qui l'atto del sopportare, del resistere. Altresì, il "portare da sotto" implica l'essere forti, tanto da sostenere anche gli altri, oltre al proprio dolore. Coloro che soffrono richiedono consolazione e si sostengono vicendevolmente, quasi come un abbraccio...”.
Ho omesso l’aggettivo ultimo volutamente. Perché lo sento di contro come un primo abbraccio. Un abbraccio di fiducia, di tacito rispetto, di con-passione, di possibilità. Specchiandomi, scovo un diverso punto di vista. E di sentire.
Un sentire vulnerabile, squisitamente femminile, perché rispetta il contesto, è accudente nel senso materno del termine, esprime una delicata sensibilità che non teme di esser tacciata come fragilità.
Nella femminilità scovo la libertà di mostrarmi vulnerabile, che apre le porte all’opportunità di esplorare insieme, non per liberarci dalla sofferenza, ma per averne un accesso privilegiato, senza più vergogna. Perché ci appartiene. Ci appartiene uterinamente. E in fondo non abbiamo nemmeno bisogno di spiegarlo o giustificarlo. Fa parte dell'esistenza. Fa parte di noi lacerarci per partorire, foss’anche un “semplice” progetto.
Ammettiamolo: delicatezza, fragilità, cura, gentilezza sono femminili per antonomasia, secondo la cultura che abbiamo ereditato. Ma in questa Giornata Internazionale della Donna 2021, il cui invito recita Let's all Choose to Challenge, io scelgo di impugnare la vulnerabilità, non come debolezza ma come potenziale per stimolare una trasformazione. Una trasformazione non di diritti, ma di senso. Dichiaratamente femminile, per sottolineare non differenze di genere ma al contrario caratteristiche di genere, che tutto sono fuorché deboli.
Abbiamo la tendenza a guardare nell’anima. Accogliamo l’altro con un sorriso. Siamo vicine con sensibilità. Incubiamo meraviglie. Abbiamo una ciclicità di pancia che ci aiuta ad accettare i cambiamenti. Scopriamo la forza per stare nel qui e ora. Lasciamo scorrere con fluidità per ritrovare l’equilibrio. Alleniamo l’agilità per rispondere all’inatteso. Ostentiamo la maternità per ricordare che possiamo sempre evolvere. E non è importante dare alla luce un figlio per attestare la nostra maternità. Perché comunque siamo chiamate, prima o poi proprio dalla nostra vulnerabilità a concepirci come libere e indipendenti, a partorirci con le nostre sofferenze ma anche con i nostri unicum, ad allevarci scegliendo ogni giorno come trasformarci, ad amarci, a prenderci cura di noi e a cascata di chi abbiamo affianco.
Celebro, dunque, oggi e per i prossimi 364 giorni la vulnerabilità al femminile, che diventa forza generatrice. Compresa la femminilità degli uomini che osano manifestarla. Perché proprio in questa scoraggiante incertezza possiamo imparare a riconoscerci, consapevoli che esiste la possibilità di onorare le nostre diversità condividendole. Nel bene e nel male. Ferite e fatiche incluse.
Con rispetto, sensibilità, apertura. Basta un con-tatto di cuore. Senza vergogna di ammettere che sì, sentiamo la fatica, la sofferenza e lasciamo che l’altro percepisca la nostra.
Spesso è così facile nascondersi cercando fuori le cause, le motivazioni, le responsabilità. Mentre con onestà e pazienza possiamo accogliere la pena come parte significativa e specifica della nostra persona.
Abbiamo ferite di cui essere riconoscenti, perché testimoniano esperienze. Perdonandoci per non averle notate e curate prima, possiamo intuire nuove dimensioni.
Personalmente, a un anno dalla chiusura delle nostre vite in gabbie isolate, per quanto dorate, il silenzio oggi mi suona completamente diverso: risuona delle confidenze sussurrate, sfuma nelle tonalità delle anime che hanno osato sostenersi con coraggio, con cuore aperto, incoraggiandosi con un sorriso spontaneo, con un'ascolto dedicato.
Manifestiamo la vulnerabilità perché ci rende umani. Non lasciamo che ci sedimenti nel cuore ed esploda con rabbia. Al contrario, insegnamo ad accoglierla, perché non esiste coraggio senza paura. Non esiste resilienza senza fragilità.
Abbracciamola, dunque, questa benedetta vulnerabilità. Onoriamola affinché le nostre unicità vengano rispettate ogni giorno, non solo l'8 marzo. Siamo primule, più che mimose. Siamo simbolo di primavera. Inizio di riscatto e (ri)nascita. Perché, sì, è ora di (ri)nascita.
È ora di declinare tutti noi al femminile.
Probabilmente non faccio parte degli uomini che osano manifestare la femminilità, e quindi questo tuo ottimo (come sempre) scritto di riflessione non mi trova particolarmente coinvolto.
Bacio, papà