Ebbene sì: siamo in crisi.
Crisi di governo. Crisi economica. Crisi esistenziale. Crisi relazionale. Crisi lavorativa.
Crisi di salute, di ideali, di valori, di speranza.
Crisi: che brutta parola è sempre stata, così gracchiante e subdola. Cri-si, quasi volesse confermare un invalidante: “Cri, cri, te l’avevo detto che saremmo finiti così…”
Anche in greco antico strideva nella pronuncia ma apriva prospettive nel significato, perché deriva da Krino, distinguere. Fare una scelta. Una scelta consapevole, mai obbligata.
Una decisione forte, ingombrante, dura. Un punto di svolta che il più delle volte non vorremmo affrontare. Eppure, siamo IN crisi e dobbiamo uscirne, perché la stagnazione altro non fa che imputridirci, sfinirci.
67 sono state le crisi di governo dal 1946 a oggi. Tante quante i giorni in cui sono accanto a chi la crisi la vive sulla propria pelle. Ma in fondo in modi diversi, stiamo tutti risuonando in questa realtà, provante, snervante, dolorosa. Fisicamente ed emotivamente. Perché si ha l’impressione di non poter far niente, se non uscirne al più presto o imparare a stare. Stare accanto. Stare saldi. Stare in piedi. Stare a guardare. Stare. Sto scivolando dalla crisi alla sofferenza per i pericoli che si palesano al fronte.
Sembra non esserci fine a una crisi che inghiottisce lasciandoci sgomenti, insofferenti. E sofferenti. Eppure, nonostante tutto voglio ancora credere alla Allende quando scriveva che le crisi e le avversità spesso diventano occasione di crescita interiore. Non per il senso attribuito all’ideogramma cinese di crisi, quanto perché davanti a un pericolo occorre reagire. E scegliere come comportarsi: non è un delirio di onnipotenza, ma la constatazione che abbiamo le risorse interiori per farlo e farlo nel modo migliore possibile è di vitale importanza in questo momento.
Susan David, mia musa d’agilità emotiva, in un recente Ted Talk ha affermato che c'è una relazione complessa e intimamente preziosa tra la bellezza e la fragilità della vita. “Amiamo e poi perdiamo. Siamo sani finché non ci ammaliamo. E anche allora ci concentriamo sul successo di un’operazione, sul pensare positivo, sulla speranza che è l’ultima a morire mentre l’unica vera esperienza comune a tutti - che sistematicamente evitiamo - è proprio la morte.
La morte di un Paese, di ideali, di una “non” classe politica. La morte della natura farfalleggiante in cui siamo cresciuti. A cui abbiamo voluto credere.
E proprio obbligandomi a mettere in camera oscura i pensieri “positivi”, pur restando convinta che la felicità e la gioia siano le esperienze emotive più importanti che posso avere, guardo in faccia le cosiddette emozioni negative: frustrazione, ansia, dolore, paura, tristezza. Mi mettono a disagio, non lo nego. Sono emozioni così difficili da gestire, quasi impossibili da condividere, perché la sofferenza si può solo vivere e attraversare da soli.
Con tutto il bene, lo sto constatando in queste settimane: io posso solo stare accanto a chi soffre e così gli altri possono solo starci accanto. Niente di più, niente di meno. E già è tantissimo, perché c’è una sorta di riserbo nell’avvicinarsi a chi soffre, quasi fosse infettivo.
Il dolore fa male… Oh, sì: non c’è davvero limite alla sofferenza. E starci dentro dà la misura del tempo. Il tempo vuoto e incolmabile, il tempo che non si misura ma si annusa, si contorce nelle viscere, si percepisce in ogni respiro.
“Tempo in cui non si cucina e non si prega si sta. Soli e improvvisati abbandonati e senza senso si sta, frastornati e vuoti” (Chandra Candiani)
Ammetto che inizio a sentirmi frastornata e vuota, in Questo immenso non sapere, come ha intitolato Chandra Candiani un suo ultimo vibrante gioiello, tanto meraviglioso quanto lacerante. Lacerante come una lama dritta al cuore, tanto tagliente da togliere il fiato
Questo immenso non sapere, è la mia luce nelle notti insonni, il mio lumino nei pomeriggi che scorrono lenti, qui, stringendo una mano…
È sofferenza ed è speranza, è quel pieno e quel vuoto di cui è intrisa ogni crisi. È la possibilità di riparare e ripararsi, che “significa staccare il filo che ci lega al danneggiatore, affidarlo al suo karma, alle conseguenze delle sue azioni, non assomigliargli, non cadere negli stessi sentimenti di distruzione, e occuparsi del baratro, del vuoto”.
Come? Meravigliandosi di questo immenso non sapere, lasciando andare i concetti, il risaputo.
«Una buona pratica preliminare di qualunque altra è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.»
Prego che la meraviglia torni ad abitarci. Poi lo sguardo si posa su pancake fatti con amore, accanto a un letto di frutti rossi. Una dolcezza intrisa di gentilezza di una semplicità disarmante. Eccola, la possibilità di un nuovo morso che profuma di buono. Allora intingo nel syrup le mie speranze, ricordandomi che, a volte, basta poco per imparare a stare. Anche in piena crisi.
Comments