13 denunce. Le avessero dato seguito forse oggi non ci sarebbero altrettante violenze.
È cronaca. Cronaca fin troppo vicina. Cronaca di violenze che si perpetrano perché non vengono prese sul serio o almeno abbastanza sul serio.
Quanti carnefici hanno millantato per anni un inesistente potere per abusare di innocenze ormai perdute? Quante violenze sono rimaste sepolte sotto cumuli di silenzio perché prevaleva il timore di non esser prese sul serio, alimentato dal dubbio che in fondo era solo un incubo? Chi non si è mai sentito rispondere: “Suvvia, che sarà mai un'urlata, un ceffone, una spinta. Non esageriamo…”
La violenza è subdola perché spesso si insinua come lava dai colori magnetici, bloccandoci quando toglie il fiato.
La riconosciamo quando ormai ci ha pietrificato, non appena inizia a ribollire per poi eruttare.
Quando ne percepiamo le prime fiammate ci tappiamo occhi, bocca, orecchie, ci chiudiamo nella nostra caverna, temendo non ci credano o, peggio, ci obblighino a uscire allo scoperto. Temiamo di bruciarci, temiamo ritorsioni, mali ancor peggiori. Temiamo, in fondo, di sbagliarci, perché stiamo dando, noi per primi, credito a quelle fiammelle che ci fanno paura ma probabilmente dipendono solo da lampi generati da una pressione eccessiva. Una visione distorta, condizionata dal sentirci vittime.
Vittime di un’infanzia che inevitabilmente ha avuto le sue ferite, vittime di un sistema giudicante, raramente comprensivo, vittime di persone che vogliono fatti, non parole. Vittime di una parte da cui, forse, temiamo pure di separarci.
The killer in me is the killer in you, my love
Non ho la presunzione di addentrarmi in un tema tanto delicato. Ma ribolle dentro di me questo vittimismo silente. Mi ribolle perché la vittima è legata al sacrificio, a chi si immola o soggiace a persecuzioni, mentre io voglio credere che oggi possiamo uscire dalla tirannia dal vittimismo denunciando abusi, minacce, bullismo, pregiudizi, cattiveria. Denunciando l'indifferenza, una delle peggiori violenze che si trincera dietro l’affermazione: “è la sua parola... anzi, deve stare attenta perché se osa anche solo portare avanti l’accusa le conseguenze possono essere peggiori”.
Già, le conseguenze… Ma ci è chiaro quali siano le conseguenze nel sottovalutare una violenza dilagante? Non ci vuole molto: sono qui, davanti agli occhi. Sono un pianeta che si esaurisce, persone che si massacrano, rapporti che si estinguono. Per non dire peggio.
A cosa servono le giornate per l’ambiente, gli editoriali commossi quando noi per primi non ci impegniamo per denunciare la violenza in ogni sua spregiudicata e subdola manifestazione?
L’ho chiesto ai ragazzi. “Violenza chiama violenza. Tutto è connesso – mi ha risposto Francesco - ogni cosa ne condiziona un'altra, creando conseguenze sempre più gravi. “Non si può e non si deve giustificare la violenza, di nessun genere, nemmeno quella emotiva, mentale”, ribatteva Viola. “Bisognerebbe parlarne, denunciarle”, chiosava una loro amica.
E sì, bisognerebbe parlarne, denunciarle. Tutte, dalle piccole alle grandi, comprese le micro violenze che cumulate nel tempo creano fratture, se non peggio. Come sottolineava Leonardo, “le violenze psicologiche portano disistima, sfiducia, solitudine, incomprensione e anche il suicidio”.
Eccessivo? Figlio dello sturm und drang adolescenziale? Non penso. Anzi, ritengo questa condivisione estremamente feconda, perché sono proprio quelle micro violenze ad alimentare le macro violenze. Sono proprio quelle paure e quei silenzi a portare – bene che vada - al suicidio della parte più esuberante, creativa e fiduciosa di noi.
Ieri sera con i ragazzi abbiamo visto il nuovo film di Disney, Raya e l’ultimo drago: a parte la maestria della produzione, il messaggio è molto forte e importante per lasciarlo fluire con buonismo condiscendente. Ne riporto un estratto:
Raya: “Sì, beh, il mondo è rotto. Non puoi fidarti di nessuno” Sisu: “Beh, forse è rotto perché non ti fidi di nessuno. (…) Se non ci fermiamo e non impariamo a fidarci di nuovo l'uno dell'altro, è solo una questione di tempo prima che ci facciamo a pezzi a vicenda. Può sembrare impossibile, ma a volte devi solo fare il primo passo, anche prima di essere pronto.”
La fiducia e la collaborazione potranno salvarci, insegna a noi umani la draghetta Sisu, straordinaria miscela di empatia, simpatia, autoironia e tanta spontaneità.
Invito profondo e quanto mai attuale. Non solo per evitare un crescendo di violenze, quanto soprattutto per lasciare vivere, mostrarsi, accusare, e finalmente liberare la vittima che è in noi. Perché altrimenti rischiamo di far a pezzi noi stessi per un passato che merita di esser guardato un ultima volta, salutato e sepolto.
Facile a dirsi e forse a piccoli passi anche a farsi. Partiamo dalla consapevolezza di esser stati vittime e di non voler più sentirci tali. Accogliamo il bambino che è in noi e pretende di continuare a sentirsi vittima di inevitabili “violenze” perché solo così può continuare a esistere. Lo ringraziamo perché ancora sopravvive, gli chiediamo scusa per non averlo accolto prima in casa e una buona volta ci pacifichiamo. Poi lo lasciamo libero di andare, sperimentare, giocare e crescere in pace.
Vivere in pace sembra paradossalmente così difficile, faticoso, insolito, perché siamo abituati al confronto, al giudizio, alla guerra con un cervello che chiede di fuggire o attaccare. Siamo vittime di noi stessi. E continuiamo da lottare per trovare la pace: surreale.
Come spesso mi ricorda la mia amica Maria Cristina, la costruzione della pace dovrebbe diventare la priorità. “Sì, ma…” è una risposta che possiamo sostituire con: “e se invece…”.
E se invece la pace si potesse trovare, crescere, condividere con un semplice sorriso?
Se alla pace si potesse educare affermando semplicemente: "basta!"?
Anche basta violenza. Basta tacere quando qualcuno ci ferisce. Basta vittime e vittimismo.
Iniziamo ad aver fiducia in noi e nel prossimo, senza vergognarci di esser state "mal trattate", ma facendo di tutto per non esserlo più. Iniziamo a mostrare tutte le nostre diverse parti, anche quelle più ribelli e anticonformiste. Iniziamo con i nostri figli, amici, conoscenti a squarciare il velo di omertà, le barriere del giusto/sbagliato e ammettere semplicemente che, senza accusa o condanna, essere trattati e lasciarci trattare così fa solo un gran male.
"Abbiamo una scelta – diceva il Capo Benja nel cartone Disney -: possiamo distruggerci a vicenda o possiamo unirci e costruire un mondo migliore. Non è troppo tardi".
Anche io credo non sia troppo tardi. Ma dobbiamo muoverci. Dobbiamo unirci e iniziare a costruire la pace. Senza provare a farlo ma sorridendoci finalmente allo specchio e dando fiducia a quel lampo di speranza che ci porta a voler leggere oltre le copertine, a voler conoscere, riconoscendo che i diritti umani non possono essere difesi e promossi solo da testi giuridici, ma dobbiamo aprire e condividere la Human Library che appartiene a tutti noi.
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