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  • Immagine del redattoreMargherita Pogliani

Facciamo l’amore, non la guerra


Sognavo risvegli d'amorosi sensi su soffici ranuncoli e invece... Colpi. Strepiti. Urla.

Anche stamani sono stata svegliata da segnali di fuoco, con botte e risposte. Ma oggi era diverso. Perché, oltre al fatto che il gatto attaccava il cane, i figli si accusavano a vicenda e c’era - come spesso accade - chi cercava (urlando) di disinnescare le bombe, oggi era scoppiata la guerra. Quella vera. Quella che non ti capaciti e passi la giornata a domandarti: “Perché???”

Voglio dire, oltre ai fatti noti e meno noti, perché persino una guerra ci lascia “poco differenti”? Perché è così scontato vivere ancora in un mondo in cui ci si nasconde per fare l’amore, mentre la violenza e l’odio si diffondono alla luce del sole?

We live in a world where we have to hide to make love, while violence is practiced in broad daylight

(John Lennon)


Perché non ci attiviamo subito per fare pace con la guerra? Perché ci ostiniamo ad alimentare e giustificare, seppur inconsapevolmente, i conflitti che subdoli scorrono dentro le nostre mura, dentro le nostre relazioni, dentro i nostri nervi tesi? Parliamone, perché forse è giunto il momento di fermarci e domandarci: ma noi, cosa abbiamo fatto per contrastare questa guerra? E non penso a scenari di geopolitica - non potrei né mi permetterei mai. Penso al qui e ora. Penso alle nostre silenti, accusatorie occhiate.

Penso alle parole non dette o ripetute e mai corrette. Penso alle frasi ignorate e a quelle immaginate. Penso ai sorrisi inespressi, correndo dietro fugaci illusioni di gloria.

Penso ai giudizi che ci riempiono la bocca e seppelliscono il cuore. Perché a ben pensarci, il giudizio è una delle armi più pericolose, sebbene derivi da ius + decs (dicere) cioè colui che dice, che si pronuncia sul diritto. Colui che valuta, stima, esprime un’opinione.


Potente, eh? Il giudizio è, infatti, uno dei ponti più potenti e distruttivi della relazione tra le persone.

Ben descrisse il saggio Focault a proposito de Il piacere di condannare, guarda caso nel sua Storia della follia: “Il piacere di esprimere una sentenza negativa è sempre inconfondibile. È un piacere duro e crudele, che non si lascia sviare da nulla. La sentenza è solo una sentenza quando viene pronunciata con una sorta di temibile sicurezza. Essa ignora indulgenza e precauzione. È presto trovata; ed è perfettamente coerente con la sua natura proprio quando scaturisce senza ponderazione. La passione che essa tradisce si collega alla sua rapidità. Le sentenze incondizionate e rapide fanno sì che il piacere si dipinga sul volto del sentenziante. […] Ci si arroga in tal modo il potere di giudice. Ma solo apparentemente il giudice sta nel mezzo, sul confine che separa il bene dal male. In ogni caso, infatti, egli si annovera tra i buoni. La legittimazione del suo ufficio si fonda soprattutto sul fatto che egli appartiene inalterabilmente al regno del bene, come se vi fosse nato. Egli sentenzia in continuazione. La sua sentenza è vincolante. Ci sono soggetti ben determinati sui quali è chiamato a giudicare; la sua vasta conoscenza del bene e del male deriva da una lunga esperienza. Ma anche coloro che non sono giudici, che nessuno ha incaricato di giudicare, che nessuna persona di buon senso incaricherebbe di giudicare, si arrogano continuamente il diritto di pronunciar sentenze su ogni argomento, senza alcuna cognizione di causa. Quelli che si astengono dal sentenziare poiché se ne vergognerebbero, si possono contare sulle dita. La malattia del condannare è una delle più diffuse tra gli uomini: in pratica, tutti ne sono colpiti.”

Mi inchino a questa terribile diagnosi. Ma colgo anche che la malattia del condannare si può combattere, con pace e fermezza. Prima con fermezza ci si morde la lingua. Poi in pace si entra in discussione. Confidando in un contagio di buon senso, nel senso che ci renda buoni. E non è buonismo. No! È sano egoismo. È contrastare un’epidemia di apatia giustificata e giudicante. È superare il concetto del buon esempio per iniziare a fare qualcosa di buono. Come? Fermandoci, facendo pace con noi stessi, scegliendo una posizione ed esprimendola preferibilmente in modo consapevole. E gentile.


Abbiamo il diritto di vivere in pace. Abbiamo il dovere di vivere in pace. Penso sia urgente, oltre che vitale, trovare un'armonia d'insieme per crescere figli coscienti e responsabili, audaci e partecipi. Partecipi anche alle situazioni di conflitti. Non per accusare, difendersi o sottostare, ma per confrontarsi e formarsi. Invece di giudicare… Sapevate che Invece di Giudicare è il più esteso progetto di divulgazione nazionale ed europeo della cultura della mediazione che ha l’obiettivo di sensibilizzare i ragazzi al tema della gestione pacifica dei conflitti creando servizi strutturati di peer mediation nelle scuole superiori di tutto il paese? Io no. E ho scoperto che il conflitto può svolgere diversi ruoli: può essere sia distruttore sia creatore, può essere sia fonte di violenza, sia fonte di sviluppo, grazie a colui che trasforma il conflitto evitando la violenza e promuovendo lo sviluppo.

Ecco, mi piacerebbe sviluppare un cambio di paradigma, dove vinca l’ascolto partecipe, la cooperazione, la formazione (umana, prima che prestante) e la mediazione responsabile. Non bisogna andare lontano. Basta guardare con rispetto e amore noi stessi, i nostri figli, parenti, amici, conoscenti e soprattutto sconosciuti, lanciando il più noto segnale di pace: il sorriso.

L’arma più potente e contagiosa che ci sia. Cosa aspettiamo a tirarla fuori?

Facciamo l’amore, non la guerra.


Pace non trovo, e non ho da far guerra e temo, e spero; et ardo, e son un ghiaccio; e volo sopra ’l cielo, e giaccio in terra; e nulla stringo, e tutto ’l mondo abbraccio. […] Veggio senza occhi, e non ho lingua e grido; e bramo di perir, e cheggio aita; et ho in odio me stesso, et amo altrui

(Francesco Petrarca)

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