“Che tristezza…” Quante volte pronunciamo queste parole e quante poche volte ne percepiamo l’autentica presenza!
“Che tristezza”, e lo dico quasi con diniego, con un certo imbarazzo (per l’altro, non sia mai!), anzi, meglio, con vergogna.
Sì, vergogna per essermi ridotta a pronunciare queste parole, vergogna per condividerle, vergogna per provare questa viscida, dannata e malsana tristezza. Il mondo ci vuole forti, resilienti, resistenti, reattivi, mica possiamo lasciarci andare in una valle di lacrime.
Ma tristezza non è sofferenza, non è dolore, non è frustrazione, non è disillusione.
Tristezza non è malinconia, né nostalgia, anche se le sta vicina, vicina.
Tristezza è un’emozione rarefatta, ancestrale, utile, molto utile, nonostante sia accompagnata da uno stato debilitante, di malessere, talvolta dolore, una malinconia a cui manca quel dolce stato di mancanza e nostalgia. Un vuoto profondo come un abisso della fantasia, ma non per questo meno reale. Un’insoddisfazione latente, che silenzia ogni stimolo o motivazione per iniziare qualsivoglia attività, nonostante si abbia la consapevolezza di doverla fare e la volontà di farla come, foss’anche solo, per esempio, alzarsi dal letto.
“Sono stanca, sono triste. E mi sento così sola…”: questa tripletta devastante ci debilita a tal punto da privarci di ogni intenzione, con una cortina oscura d'indelebile noia che ci fa credere di non aver nemmeno più bisogni o scopi nella vita.
Una percezione di anestesia emotiva in cui tutto appare irreale, ci si sente distaccati dal mondo, il tempo scorre senza che ci si renda conto del suo passare.
Quanti di noi l’hanno provata? Suvvia, non bisogna per forza avere una diagnosi di depressione maggiore per ammettere che sì, provo tristezza. Anzi, sono talmente ammantata di tristezza che ormai non la riconosco nemmeno più, rendendola così la mia parte più rinnegata.
Fin da piccoli ci dicono di non piangere. Addirittura, a noi avevano suggerito di buttarla sul ridere quando i gemelli da piccoli imbronciavano le labbra prima di piangere per cadute per noi banali. Piccoli, grandi traumi infantili che spingono i bambini a imparare molto presto a reprimere le proprie emozioni, a camuffare la propria tristezza e a costruirsi una maschera di felicità da mostrare agli altri e in fondo anche a se stessi.
Così decido di guardarla, di cercarla questa dannata tristezza: voglio darle fattezze concrete, tanto rigetto l’idea che reale già sia fin troppo. Etimologicamente oscura, “è una parola stranamente generale: è iridescente e sfocata, non ha sfumature precise, connotati dettagliati. È una parola, mi pare, da bambini, quando usano un’espressione sola per indicare un mondo che sì, potrebbe essere meglio descritto - ma non con la stessa immediatezza. È uno stato archetipico dell’animo, da cui poi scaturiscono tutte le tonalità e i sapori più definiti di quell’essere triste. Forse il triste è un genere intero di sentimenti - è come il blu, che può essere ciano, di Prussia, oltremare.” Blu oltremare, nessuna luce all’orizzonte, persa in un’immensità che fatico a vedere perché non ha confini, non ha riferimenti e io, io lì mi sento persa. Persa in ogni senso: sconfitta, abbandonata, annullata. Ma da quel mare ci devo passare se voglio vivere la gioia.
La vera felicità è qualcosa di molto vicino alla tristezza. (Charlie Chaplin)
Grande, grandissimo poeta, Chaplin che fin da bambina associo alla tristezza, con la musica malinconica di Luci della Ribalta. Inizio a piangere sentendo le prime due note. Due, dico due, note su cui mi sento libera di lasciar scorrere un fiume di lacrime, troppo a lungo trattenute. Due note per toccarmi l’anima e farmi sentire viva, sì, viva, giacché quel pianto ininterrotto è vita, è nel flusso della vita, è parte essenziale della vita.
Oh, Tristezza, mia parte rinnegata: non mi ero mai autorizzata a farti uscire dalla buca che ti eri scavata. Tanta paura, tanta vergogna sono state sciolte dalla compassione, intesa come “con passione”, strumento straordinario per trasformare anche il letame più viscido in concime. Concime da dare alla pianta che voglio ammirare, al fiore che voglio diventare...
Ammettiamo, amici, la tristezza nel nostro banchetto esistenziale: da oscura emozione primaria scopriamo quanto sia vitale rallentare per raccogliere le forze residue, analizzare la situazione e quindi rispondere, come anche condividere il proprio stato d’animo per essere riconosciuti umani, bisognosi, desiderosi di un abbraccio che scaldi il cuore.
Cara tristezza, in fondo non sei cattiva, tanto meno negativa.
Ti ho avuta attaccata alle costole per decenni, ora sentiti libera di amare qualcun altro.
Io alzo lo sguardo e mi perdo nella fioritura della gioia, quella pura.
Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Scrivere, per esempio. “La notte è stellata, e tremano, azzurri, gli astri in lontananza”. E il vento della notte gira nel cielo e canta. Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Io l’ho amata e a volte anche lei mi amava.
In notti come questa l’ho tenuta tra le braccia. L’ho baciata tante volte sotto il cielo infinito.
Lei mi ha amato e a volte anch’io l’amavo. Come non amare i suoi grandi occhi fissi.
Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Pensare che non l’ho più. Sentire che l’ho persa.
Sentire la notte immensa, ancor più immensa senza di lei. E il verso scende sull’anima come la rugiada sul prato.
Poco importa che il mio amore non abbia saputo fermarla. La notte è stellata e lei non è con me.
Questo è tutto. Lontano, qualcuno canta. Lontano. La mia anima non si rassegna d’averla persa.
Come per avvicinarla, il mio sguardo la cerca. Il mio cuore la cerca, e lei non è con me.
La stessa notte che sbianca gli stessi alberi. Noi, quelli d’allora, già non siamo gli stessi.
Io non l’amo più, è vero, ma quanto l’ho amata. La mia voce cercava il vento per arrivare alle sue orecchie.
D’un altro. Sarà d’un altro. Come prima dei miei baci. La sua voce, il suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti. Ormai non l’amo più, è vero, ma forse l’amo ancora. E’ così breve l’amore e così lungo l’oblio.
E siccome in notti come questa l’ho tenuta tra le braccia, la mia anima non si rassegna d’averla persa.
Benché questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa, e questi gli ultimi versi che io le scrivo.
(Pablo Neruda)
Quando sei così profonda, faccio fatica a seguirti !
Papà