Come ti senti? Bene, bene…
Nel senso: cosa senti? Nulla.
Ma mi ascolti? No.
No, perché è molto più facile e meno rischioso andare avanti come di consueto: navigando a vista, toccando con mano, trovando gusto nella superficialità, tappandoci il naso se sale qualche sentore sgradevole.
Ma cosa ci rimane? Sensazioni, senza connotazione. Sensazioni che possono essere spente da un virus lasciandoci in balia dello sgomento. “Ciò che mi ha colpito di più – mi ha confidato ieri un ragazzo – è la totale perdita di gusto e olfatto, il mal di testa che immobilizza, il buio che avvolge”.
Via gusto, via olfatto, via tatto, via vista, resta l’udito. E il famoso sesto senso.
Parto da quest’ultimo, il mio preferito: l’intuito. Perché oltre le parole ci sono i sentimenti che meritano di essere vissuti e riconosciuti, altrimenti diventano come il nostro rubinetto che, al di là dello stile, perde goccia dopo goccia, lasciando segni difficilmente recuperabili. Difficilmente recuperabili, perché a furia di lasciar perdere ci perdiamo tutti in un silenzio devastante: la paura di esporci soffoca qualsiasi sensazione. E relazione.
Anche no, grazie. Adoro la relazione, quindi mi fermo, respiro e presto attenzione per sentire e ascoltare in modo attivo e costruttivo.
Attenzione, ascolto, azione.
Mi sembra di tornare sui banchi di scuola (che oggi sarebbe una splendida sensazione!).
“Attenzione, prego. Aprite bene le orecchie".
In fondo la natura ci ha dato due orecchie e una sola bocca, quindi val la pena drizzarle per stare a sentire. Liberando il campo da pensieri, pregiudizi, soluzioni. Mantenendo la concentrazione sul dialogo, interno e non.
Ascoltando con riconoscenza l'essere in relazione, in un incontro di sensi.
Odo, poi presto attenzione a ciò che sento, infine ascolto attivamente: interpreto, seleziono e trasformo in azione i pensieri in cui credo.
L’ascolto, infatti, è alla base della nostra evoluzione, in quanto esseri in relazione.
Trovo importante permetterci di lasciar decantare qualche secondo le parole, per sentirle meglio e coglierne le diverse sfumature.
Trovo utile domandarmi “perché?”, evitando di arrivare a conclusioni affrettate.
Trovo, soprattutto, fondamentale sospendere il giudizio.
Curioso: fino a poco fa consideravo l’ἐποχή in chiave filosofica, come uno stato di scetticismo voluto. Mi astenevo perché non ritenevo di non aver abbastanza elementi per valutare.
La fortuna vuole che abbia conosciuto l’illustre prof. Vilardo, decano di uno dei più evoluti licei milanesi, a cui ho chiesto delucidazioni sull’origine del termine. “Dal greco επέχω, tenere sospeso – mi ha risposto. L’epoché è anche la parentesi, che “trattiene” un gruppo di numeri, ed è anche l’epoca, nel corso della quale alcune cose si “trattengono”, nel senso che non mutano. I Beatles hanno fatto epoca perché da sessant’anni sono sempre nel nostro orecchio”.
Wow! Senti, senti, che meraviglia l’etimologia! La sospensione definisce l’epoca, la cui derivazione in italiano ha perso la locuzione ἀστέρων: la posizione delle stelle, il punto in cui gli astri sembrano sospesi.
Sospendo il giudizio e resto in ascolto come un astro sospeso, riflettendo sull’opportunità dell’epoca che stiamo vivendo: percepire una galassia di punti luminosi che possiamo sentir vibrare dentro di noi.
Dentro di me le vibrazioni risuonano, chiedendomi di fermare pensieri acerbi, per sondare i riflessi di sensazioni ed emozioni. Perché ogni emozione, lo dice la parola, smuove, causa una reazione. Preferibilmente armonica, ben lontana da una soluzione. La vita, infatti, mi sta insegnando che insistere nel voler capire per controllare e trovare soluzioni sia devastante. Oltre che defatigante.
Pensavo che l’invito “Usa la testa!” fosse funzionale a “Risolvi il problema”. Che errore! “Usa la testa!” è semplicemente “Usa la testa”, rifletti. E rifletto solo ciò che conosco, perché ho sentito e ascoltato, in tutti i sensi.
Ci vuole coraggio per sentirci...
Ci vuole letteralmente cuore, anima ed empatia, partecipando emotivamente, come avveniva nell’antica Grecia, tra l'aedo al suo pubblico: ἐν, "in", e -πάθεια, dal verbo πάσχω, "soffro insieme, sento dentro le sue emozioni".
L’empatia, come la simpatia, per sua natura dovrebbe essere una condizione di reciprocità, un legame, un campo magnetico.
Dopotutto, l’inchiostro simpatico si chiama così perché le sue fibre entrano in reazione, “sentono” quelle della carta e col calore svelano le parole.
Serve calore per svelare le parole.
Già, dove è finito l’inchiostro simpatico?
Dimenticato come le simpatie che ci hanno forgiati fin da piccoli?
“Dobbiamo essere chiari, grandi, forti, indipendenti, convincenti”. Così l’inchiostro simpatico, l'intuizione di una simpatia, con la promessa di viverla fino in fondo, sentendosi insieme, viene silenziata.
Non sia mai che sentiamo qualcosa di diverso. Non sia mai che corriamo il rischio di metterci in discussione.
È paradossale che proprio con l’isolamento stiamo negando ai nostri figli la possibilità di sviluppare simpatie, capacità relazionali. Parliamo tanto di cambiamento ma siamo i primi a prenderne le distanze: "Non ora", “Non ho voglia di parlarne” e il dialogo passa sotto silenzio.
“Non mi ascolti mai” diciamo e sentiamo spesso. Peccato non voler ascoltare noi stessi per primi.
Surreale, no? Domandiamo: “Come ti senti?” e non ascoltiamo la risposta per paura di ciò che potremmo sentire.
Pazienza. Non certo per gettare la spugna ma per darci il tempo di (ri)educarci all’ascolto, profondo, sincero, costruttivo.
Con gentilezza, con compassione, con impegno attento e meticoloso. Perché è vero, come diceva Mandela, che “Il compito più difficile nella vita è quello di cambiare sé stessi”, ma sento altrettanto vera la considerazione che fece Churchill
“Non sempre cambiare equivale a migliorare. Ma per migliorare bisogna cambiare”.
E, giusto per citare un altro spirito straordinario, Martin Luther King, “Può darsi che non siate responsabili della situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.” A prescindere, aggiungo, che l’altro partecipi o meno, senta o meno, ascolti o meno.
Noi possiamo essere i cambiamenti che vogliamo vedere alzando per primi la testa, guardando dritto negli occhi e stando a sentire. Semplicemente stando a sentire. Noi stessi e gli altri, in un processo di cambia-menti integri e completi, con attenzione, ascolto attivo e accettazione, per distinguere ciò che possiamo e ciò che non possiamo trasformare.
Abbiamo bisogno della cultura del saper essere, stando in ascolto, con sensibilità, coraggio e la fiducia che ogni sentire può diventare chiave d’azione. Di creazione ed espansione.
“Ascoltare è una forza magnetica, speciale, creativa (…) Essere ascoltati ci fa aprire ed espandere” (Karl Menninger)
Bravissima Marghe, una delle riflessioni migliori finora scritte, complimenti, c'è molto da imparare (e da mettere in pratica)