E’ finito il ciclo delle cartelle, dei grembiuli, delle merendine, dell’accompagnamento.
Con oggi Viola, Francesco e Leonardo, insieme a oltre un milione e mezzo di ragazzi, lasciano i banchi delle scuole secondarie per affrontare realtà molto diverse. Poco importa se classico, scientifico, umanistico (noi siamo presenti in tutti!), istituto tecnico, alberghiero e innumerevoli altri. L’importante è quali banchi troveranno. Baipassando la commozione della fine di un periodo straordinario, misto a quel vago senso di fierezza per come si sono dimostrati seri e responsabili, ora il mio sguardo si posa sul futuro. Con notevoli preoccupazioni.
Perché, come ha scritto il mio ex Direttore (lui sì, merita la D maiuscola), Carlo Verdelli, nel suo editoriale sul Corriere della Sera del 16 giugno: “Se il governo si togliesse per un attimo la mascherina dagli occhi, vedrebbe subito l’iceberg a cui sta andando incontro. Una specie di iceberg fantasma, a cui nessuno sembra dare eccessiva importanza. Si parla della scuola, e sembra un divagare. (…) L’iceberg Scuola avanza verso la nave Italia a una velocità spaventosa, nella colpevole incuranza generale. È l’unico settore per cui non è ancora stato previsto nemmeno un protocollo per la ripartenza. Otto milioni di studenti aspettano da inizio marzo una qualche prospettiva per il loro ritorno in classe. La didattica a distanza, lodevolmente sperimentata in questo tempo sconvolto dalla reclusione per pandemia, ha raggiunto un alunno su due, aggravando una povertà educativa che secondo l’Istat ha ormai superato i 2 milioni di minori, un quarto del totale.
Fra i 37 Stati dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, siamo con vergogna all’ultimo posto per spesa pubblica destinata all’istruzione: 6,9 % del totale (gli Usa, quasi il doppio; il Cile addirittura il triplo).
Le nostre 41 mila scuole sono in gran parte vecchie, ammalorate, concentrate in grandi plessi da oltre mille studenti (con un solo preside per tutti, una condanna più che una cattedra, e aule ingestibili da 30 alunni) invece che distribuite in piccole unità educative sul territorio.
(…) Nell’ultimo Decreto Rilancio, quindi post virus, alla scuola, questa scuola italiana, sono stati destinati 1 miliardo e 400 milioni, la metà di quelli per Alitalia. La metafora dell’iceberg non pare esagerata.”
No, non pare esagerata ma sembra paralizzarci anziché spronarci all’azione. Siamo paralizzati dalla preoccupazione, che in quanto tale non dovrebbe esistere perché è un occuparsi (prima) di qualcosa che potrebbe non accadere.
Come insegna Daniel Lumera, tra tutte le attività promosse dalla fondazione My Life design®, “l’educazione non può essere considerata come una teoria da applicare o un fare prestabilito, ma, in relazione con l’etimologia della parola stessa educare, ovvero educĕre ‘trar fuori’, diviene un processo mediante il quale facilitare nell’individuo l’evoluzione e la crescita consapevole e promuovere una vera e propria cultura della consapevolezza, della pace e della felicità, per un impatto sociale collettivo”.
Come? Collocando alla base del sapere e del saper fare, il “saper essere”.
Abbiamo gli strumenti, ma è lapalissiano che occorra il coinvolgimento di tutti: non solo dei bambini e ragazzi, degli insegnanti, dei dirigenti scolastici e di tutti gli operatori dei contesti educativi, ma in primis delle istituzioni che devono scegliere dove investire per il nostro futuro.
Perché se riteniamo la scuola meno prioritaria di Alitalia abbiamo davvero un serio problema, un problema che cancella ogni futuro per il nostro Paese, che annulla il senso del nostro esistere. Serve una politica di rilancio sostenuta e sostenibile, corroborata da consapevolezza personale e sociale concreta. Questo significa scegliere responsabilmente ogni giorno pensieri e azioni coerenti a ciò che desideriamo essere e portare nel mondo.
“Il nostro modo di “essere” è il primo spazio nel quale chi ci incontra osserva e respira “un nuovo modo di essere umani”. Ogni azione, proposta, evento nasce con modalità partecipate,
come risultato del contributo e delle potenzialità di ognuno.
Nel costante confronto ci si sente parte di qualcosa di più grande: membra dello stesso corpo.
Da lì ogni nostro progetto prende forma, per divenire reale e concreto”
(Daniel Lumera)
Torniamo, dunque a confrontarci, ad attivarci, a partecipare, a esporci. Nella mia esperienza di questi due primi cicli scolastici moltiplicati per tre, ho avuto la fortuna di esser parte del Consiglio d’Istituto, di rappresentante di classe (tutte!) e di socia dell’associazione scolastica GPP, formata da studenti, genitori e docenti di tre plessi scolastici statali a Milano. Con GPP abbiamo offerto un contributo concreto alla scuola, raccogliendo decine di migliaia di euro ogni anno con fondi e soprattutto iniziative di gruppo, come aste di ciò che potevamo offrire (per esempio una giornata del nostro lavoro gratis, un we nella casa in campagna, una visita in azienda), per compensare i progressivi tagli ministeriali. Abbiamo promosso il diritto allo studio e sostenuto attività culturali, sportive e ricreative. Abbiamo agevolato l’integrazione nella scuola e nel territorio circostante (piena Chinatown), diventando esempio per tutta l’Italia.
Non eravamo supereroi, ma semplici genitori, studenti e insegnanti, impegnati insieme per aiutare, nel loro piccolo, questa scuola che sta crollando a pezzi. Consapevoli che l’unione fa la forza. Anche per chiedere maggiore attenzione, rispetto e investimento nel futuro dell’Italia, per ora ancora sui banchi ma presto sui campi. L’augurio, pertanto, che lancio a tutti questi ragazzi e soprattutto a noi è di creare insieme nuove competenze, nuove aperture, nuova fiducia, nuove connessioni, nuove relazioni.
Partendo dalla consapevolezza che i nostri figli valgono più dell’investimento.
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