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Immagine del redattoreMargherita Pogliani

Facciamo che iniziamo a fare?


Un ritorno, poi, da dove? Da un’estate inusuale? Da leggerezze ingiustificabili? Da solitudini dichiarate, sebbene condivise? Da promesse disattese? Da infiniti rimbalzi, di responsabilità, palle, soluzioni, previsioni?

Sinceramente io non torno. Non torno perché già sono. Non torno perché lavoro con tale coinvolgimento che mi sembra di essere sempre in vacanza.

Non torno perché tra dire, fare e baciare scelgo comunque il fare. Dove per “fare” intendo realizzare, ma anche diventare. Diventare e realizzare ciò che mi illumina il cuore, mi frulla nella pancia e soddisfa la mia testa.

Sto investendo tutto su due progetti in cui credo, perché sento che possono essere generativi di miglioramento. La testa dice: “Non so se ce la puoi fare”. Il cuore dice: “fallo perché sono davvero due Buone idee”. La pancia dice: “non pre-occuparti, limitati ad occuparti, anche se ti senti diversa, anche se hai paura”. Seguo il suggerimento dell'anticonformista Amelia Earhart: "Il modo migliore per fare una cosa è farla". Così, come l’ornitorinco, divento cacciatrice implacabile di azioni, rilevando l’energia che mi trasmettono.

“Mi sento un ornitorinco - raccontava la professionista di sports marketing Marianna Zanatta a TED. L’ornitorinco depone le uova ma allatta i cuccioli, è semiacquatico, nuota senza usare la vista e ha una temperatura costante. È l’unico esemplare del suo genere. Ma non è un esempio, anzi, finisce tra le specie in via di estinzione perché vulnerabile. In realtà è solo diverso da tutti.

Come l’ornitorinco ho sempre fatto ciò che volevo e sono sempre arrivata dove volevo arrivare.

Ho sempre sognato tanto e mi sono sempre attrezzata per realizzare quei sogni, andando oltre i giudizi e i condizionamenti, interiori e di altri. Mi tappo le orecchie e faccio. Arrivo al risultato e faccio, mentre sto già facendo un’altra cosa. Perché è nel percorso che sono felice. Il fare è per me l’attivatore di felicità, anche quando sono nel tunnel più buio”.

Come fa? Seguendo pochi, semplici concetti, che trovo impossibile non sottoscrivere:

Decido io chi sono. Nella mia vita non lascio decidere gli altri.
Do fiducia a me stessa e alle mie intuizioni. Do fiducia ai miei amici e a chi mi vuole bene.
Rispetto i miei valori e mi monitoro con costanza. Rispetto il tempo fisiologico di cose e persone.
Mi permetto momenti di sconforto, tanto lo so, li supero. Mi permetto la parte giocosa in tutto quello che faccio.
Mi proteggo da tutti gli accademici. Mi proteggo dalla quotidianità e dai deliri degli altri.
Non cerco l’ancora dell’essere pronta: non lo sarò mai. Non cado nella trappola della vittima-carnefice del perfezionismo.
Accolgo l’errore, funzionale al processo evolutivo. Accolgo la crisi perché è il momento in cui riesco a conoscere me stessa e ad aggiustare il tiro del fare.

Il fare non è solo l’attivatore della felicità per me, ma lo è anche per gli altri attraverso di me.

Accettiamo ogni pezzo di noi, conosciamoci, amiamoci e diamoci veramente da fare per essere chi vogliamo essere nella vita, noi. Lasciamo stare gli altri”, conclude.

Non è facile andare avanti per la propria strada e non farsi bloccare dal pensiero, che abbia la forma della vocina interiore oppure dei condizionamenti e dei giudizi del mondo esterno. Ma si può fare, ascoltando anche la pancia e il cuore, gli amici veri e i bisogni degli altri. Perché la solidarietà deriva da solidum, la moneta cui si riferiva il diritto romano con l’espressione in solidum obligari («obbligazione in solido») che ci si impegnava a pagare per una somma dovuta.

Penso che, dati i danni che abbiamo causato, sia doveroso che noi, per primi, apriamo la testa, il cuore e la pancia a una vera solidarietà, passando subito all’azione, con sacrificio e responsabilità.

In fondo, come diceva Gandhi: "Qualsiasi cosa tu faccia potrebbe non fare alcuna differenza, ma è molto importante che tu la faccia".

Quindi, come suggerisce Marianna Zanatta: “Facciamo che iniziamo a fare e poi, semmai, aggiustiamo il tiro?”

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